Intervista a El Hadj Malick Ndiaye
Direttore Artistico di Dak’art 2022, Biennale di Dakar
Carmen Lorenzetti
L'opera di Tegene Kunbi Senbeto vincitrice del Grand Prix (foto: ufficio stampa Biennale di Dakar)

11.06.2022

Sei senegalese, hai studiato a Dakar e poi all’estero? Qual è la tua formazione?

Ho una laurea magistrale in lettere moderne su Ousmane Sow presa a Dakar, una specializzazione in estetica. A Parigi ho avuto una borsa di ricerca per un anno all’INHA (Institut National d’Histoire de l’Art). Poi ho ottenuto un’altra borsa di ricerca a Rennes con ricerca di storia dell’arte sull’arte contemporanea africana e le sfide del dibattito critico postcoloniale. Infine ho superato un concorso all’institut National du Patrimoine per accedere a un corso biennale per diventare curatore e dopo il diploma ho vinto un postdottorato a l’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Infine sono tornato a Dakar dove l’università ha aperto un posto di storia dell’arte a l’IFAN, che ha vinto nel 2015. Nel 2016 mi hanno proposto di dirigere il Museo Theodor Monod. Nel 2019 mi hanno proposto di dirigere la Biennale di Dakar del 2020, che poi è slittata al 2022 causa COVID.

Il tema della Biennale è Ĩ Ndaffa, che nella lingua Serere significa forgiare. Il forgiare in primis con il fuoco e poi con il pensiero. Quindi è un’apertura a nuove narrative e proposte radicate nel suolo africano e nella sua storia e cultura.

Il concetto è rimasto lo stesso, ciò che si è venuto arricchendo è il rapporto con gli artisti, perché abbiamo avuto quattro anni per riflettere e confrontarci sul lavoro di ciascuno. Infatti le opere dal 2019 sono cambiate, i progetti sono stati rivisti e ingranditi. E poi non si poteva omettere ciò che nel frattempo stava succedendo come l’omicidio di George Floyd, il movimento Black Lives Matter, la distruzione delle statue, il COVID. Le opere quindi sono il frutto di una discussione.

Sono stati distribuiti sette premi: dal Grand Prix Léopold Sédar Senghor (andato a Tegene Kunbi Senbeto), al Prix du Ministre de la Culture (Férielle Doulain-Zouari), al premio della CEDEAO (Caroline Gueye), al premio del sindaco di Dakar (Arébénor Bassène e Mbaye Babacar Diouf) al premio UEMOA (Mbaye Diop) al premio Ousmane Sow (Abdoulaye Ka), al Premio del migliore scultore (Achille Adonon) da una giuria che non è nota, sai chi c’era in giuria?

Tra i giurati c’era Salimata Diop, Khaled Zaki, Suzanna Souza… nomi che ho scoperto il giorno della premiazione.

Si, Diop è l’agente senegalese dell’artista franco-beninese Laeila Adjovi che ha vinto il Grand Prix nel 2018. Quali sono le differenze tra la tua Biennale e quella precedente curata da Simon Njami?

Su questo si dovrebbero esprimere di più i giornalisti.

Quella di Njami era stata definita spettacolare con nomi internazionali di richiamo.

Io posso dirti che ci sono meno artisti rispetto alla Biennale del 2018 e che rispetto alla Biennale precedente dove lo spazio attorno al cortile principale del Vieux Palais de Justice era tutto suddiviso da pannelli di legno, ho aperto tutto, ho utilizzato lo scenografo Khalifa Ababacar Dieng che ha liberato le prospettive visive facendo dialogare le opere. Vi sono poi vari argomenti per paragonare le due Biennali.

Che progetti hai per il futuro?

Dal punto di vista della ricerca collaboro in un progetto internazionale che vede insieme istituzioni universitarie dalla Germania, Inghilterra, Sud Africa, Senegal e Camerun, che ha come obiettivo la restituzione degli oggetti africani alle loro terre d’oringine con una mostra “Reconnecting objects” al Museo Monod nel 2024. Co-Curerò un’esposizione al Grand Palais di Parigi nel 2025 chiamato da Chris Dercon che dirige L'incontro dei musei nazionali. La mostra sarà dedicata a Dakar 1966, il primo festival moderno d’art negre a Dakar.

Come vedi la scena senegalese?

La Biennale di Dakar è diventata un appuntamento internazionale del mondo artistico, si svolge in una città dinamica e attiva. L’arte senegalese negli ultimi anni è connessa con il mondo globale. Ci sono giovani bravi come Caroline Gueye, Fally Sene Sow, Mbaye Diop, Laye Ka (partecipanti alla Biennale di quest’anno), Omar Ba, Badou Diack, , Binta Diaw, Armine Kane, Ibrahima Thiam, Ibrahima Dièye…., che hanno prospettive di maturazione artistica. E questo nonostante l’École des Arts non sia il massimo, legata più alle tecniche che alla teoria. Infatti dipende dal Ministero della Cultura e non da quello dell’educazione superiore e questo è un problema. C’è il progetto di una nuova scuola : l’École Nationale des Arts et des Métiers de la Culture.

E cosa dici più in generale dell’arte africana che in questo momento ha un grande successo nelle kermesse internazionali, nel mercato e presso il pubblico?

Gli artisti africani sono mescolati nella cultura globale. Ci sono molte innovazioni. Gli artisti della diaspora sono molti. Oggi non si possono fare mostre senza gli artisti africani e della diaspora che contribuiscono a cambiare l’ecosistema dell’arte globale. Da questo punto di vista l’arte africana contribuisce molto alla reinvenzione dell’arte contemporanea, nel senso che ci sono molti artisti che vengono dal continente e che hanno ruoli importanti e che si trovano nelle gallerie importanti. I loro contenuti contribuiscono a reinventare la contemporaneità. Parlano di tutto, basta vedere i temi trattati dalle opere in Biennale: società, ambiente, ecosistema, identità, memoria, postcolonialismo, malattia, scienza...

Vorresti fare una considerazione finale?

Quel che ho apprezzato dopo quattro anni è che molte persone si sono ritrovate. Tutte le grandi istituzioni sono venute in massa a Dakar. Ormai Dakar si può considerare una capitale artistica mondiale. Molte persone che sono venute hanno apprezzato gli artisti e i progetti. E infine è stata una festa dell’arte e della cultura, che anche gli artisti hanno amato e apprezzato.