10.03.2024
Osservando
il mondo contemporaneo e più nello specifico soffermandomi a
guardare le nuove generazioni formate da ragazzi e ragazze che stanno
“provando”
a dar vita al loro futuro, non riesco a far a meno
di notare come predomini un senso di “infelicità”
e “insicurezza”
forse anche di “disinteresse”
rispetto al proprio essere in relazione con sé
e con l’altro.
Prevale e permane il forte legame tra incertezza e dubbio.
Deriviamo
certamente dal cosiddetto Permacrisis, “un
periodo esteso di insicurezza e instabilità vissuto
come permanente”. Termine presente nel
dizionario inglese Collins che ha spopolato nel corso degli ultimi
anni tra i giovani curiosi di scoprire il decorso politico-sociale
delle calamità variegate e presenti in una
società sempre più incerta.
Basti pensare alla pandemia, alle guerre, al caos economico, alle crescenti ansie rispetto al futuro e a quelle avversità difficilmente superabili che insieme probabilmente peggioreranno il singolo e la società. Le etiche antropologiche che mettevano l’essere umano al centro dell’universo forse non funzionano più.
Come
diceva/scriveva il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti,
“abbiamo perso
il senso del limite che avevano i Greci” e
ancora: “Noi
riempiamo le scuole di computer, quando è la letteratura che ci
insegna cosa sono il dolore e l’amore, la
gioia e la speranza.
Se queste cose non si hanno in testa quando
si affronta l’angoscia, non ci si può
salvare […]”
(U. Galimberti, L’etica
del viandante, Feltrinelli, Milano,
2023).
Bisognerebbe dunque pensare ad una nuova etica, intesa come “etica del viandante”. Galimberti descrive poi “il viandante proprio come un individuo privo di meta da raggiungere o uno scopo da realizzare, colui che traccia il suo sentiero attraverso le sue orme, facendo passo dopo passo esperienza e relazionandosi con le differenze, prendendosi cura della Terra”.
Con uno sguardo quasi indiscreto sul mondo e sull’analisi del concetto di dignità umana, collegandoci ad aspetti di natura letteraria, filosofica e storica, preliminarmente a qualsiasi specializzazione anche e solo professionale che l’essere umano può costruirsi, si intravede ancora quella forte carenza ad orientare e individuare competenze nel giovane, che permane così nel suo stato di confusione e di distacco nei confronti di interessi ben motivati.
Lo sguardo filosofico-sociologico gettato sulla condizione giovanile, che avrebbe dovuto indubbiamente porre maggiore attenzione sulla conoscenza dell’altro e del suo mondo per dare migliori risultati, potrebbe forse orientarsi con maggiore nettezza verso la vita sociale intesa come corrispondenza.
Si tratta di una condizione cruciale in uso in una attualità che si manifesta in termini critici. Tale motivo, derivante già dalla riflessione complessiva di Baudelaire, viene incisivamente riformulato e reso più produttivo oggi da Tim Ingold, volendo appunto disegnare spazi di esistenza in cui l’essere umano riesca a seguire concretamente pratiche di cura (di attenzione e presa di responsabilità), affinando il suo agire e pensare, riuscendo così effettivamente a partecipare con consapevolezza e con senso critico allo svolgimento del vivere sociale complessivo.
Purtroppo, però, i disequilibri tipici della contemporaneità scoraggiano le nuove generazioni ad acquisire saperi e conoscenze plurime indispensabili per formulare approcci non scontati, non irriflessi, alle problematicità proprie delle “società del rischio” (Ulrich Beck), finendo così per favorire la non assunzione di responsabilità di fronte alle tante criticità e urgenze che incessantemente si ripresentano.
In
particolare l’attenzione al concetto di
cura, riprendendo le riflessioni di un altro grande sociologo
tedesco, ovvero, Hartmut Rosa, costituisce una sorta di presupposto
indispensabile per poter muoversi in un senso alternativo, di
ricalibratura fertile del nostro “essere
nel mondo”. Questo perché
accompagna tutto il nostro vissuto e ne
delinea la qualità, le sfumature e i
contorni. Tutto quello che ad oggi dovrebbe essere visto con più
tranquillità,
con più calma (quella che manca nella nostra “società
dell’accelerazione” a
tutti i costi), per esser focalizzato e realmente osservato.
Questa
considerazione critica sarebbe attestata dal fatto che il tipo di
forma che prende la nostra vita è in stretta connessione con la
varietà di cura di cui facciamo
esperienza, poiché sono
i modi della stessa che scolpiscono la nostra esistenza.
Scrive Mortari: “La cura è, infatti, quel modo d’essere che accompagna senza soluzione di continuità la vicenda temporale dell’essere umano” (L. Mortari, La pratica dell’aver cura, op. cit. 2006, p. 2).
È con l’insieme di queste-parole chiave che diviene importante, a mio modo di vedere, ripensare alla soluzione che Ingold propone e che riguarda la riformulazione del nostro stare nel mondo, passando dalla semplice interazione ad una effettiva corrispondenza, quella che consente di far meglio fronte al delinearsi di direzioni spesso imprevedibili proprio perché è il corrispondere, la coltivazione delle “abilità di risposta”, che permette un ascolto reale e un dialogo non prefissato in virtù dell’attenzione e della cura nei confronti dell’altro e, in generale, del mondo stesso.
Scrive Ingold: “Pensate ad un fiume e alle sue sponde. Potremmo parlare della relazione di una sponda con l’altra e, attraverso un ponte, ci troveremmo in mezzo alle due; ma le sponde si formano e si riformano continuamente, mentre le acque del fiume scorrono”. (T. Ingold, Corrispondenze, Raffaello Cortina Editore, 2021, p. 10).
Con tale metafora si può arrivare anche a riflettere con la dovuta attenzione sul senso di paura/disinteresse che sembra investire le nuove generazioni, sempre meno portate a rischiare di mettersi in gioco, ad affrontare le tante esigenze/urgenze del presente. Riprendo qui una parte della riflessione deleuziana citata da Ubaldo Fadini nel suo “Divenire minore e divenire distanza. Modi della sottrazione”,in “Tropicodelcancro”: “(…) il divenire, il movimento, la velocità, il turbine, di quello che si trova in mezzo. Il mezzo non è una media, è invece un eccesso. Le cose crescono nel mezzo. Era questa l’idea di Virginia Woolf […]” (G. Deleuze, Un manifesto di meno, p.73).
Il
cambiamento storico, decretando soprattutto un’età di
continua riscoperta del primato dell’incertezza,
come si può vedere, fa sì che trasformi,
indipendentemente da qualsiasi situazione si presenti, una persona in
modo radicale, fatto, questo, che forse solo con la riscoperta del
valore dell’educazione e l’attenzione
alla cura può almeno in parte sfuggire
alle presa di tutto ciò che muove nella direzione di un progressivo
inaridirsi dell’animo umano, che comporta
quindi pure l’accettazione
dell’inaccettabile, l’abitudine
a restare in una condizione di malessere continuo, la perdita
d’empatia o la sua traduzione in “empatia
malata”.
L’affermazione invece
della sostenibilità di una idea aperta al
rinnovamento, legata ad obiettivi sostanziali di
emancipazione/liberazione e predisposta alla risoluzione di qualsiasi
tipo di rischio, potrebbe favorire la visione di una prospettiva
differente rispetto al cosiddetto Permacrisis:
così almeno si spera e ritengo che valga
veramente la pena scommettere sulla realizzazione dei contenuti più
significativi di tale sperare.