In ricordo di bell hooks. Insegnare a trasgredire
bell hooks

18.12.2021


Introduzione

Insegnare a trasgredire



Nelle settimane che precedettero la decisione del Dipartimento di Inglese dell’Oberlin College di concedermi o meno l’incarico di ruolo, ero ossessionata da sogni di fuga, di scomparsa – persino di morte. Questi sogni non derivavano dal timore di non vedermi assegnato l’incarico, erano la reazione alla consapevolezza che mi sarebbe stato concesso. Avevo paura di rimanere intrappolata per sempre all’interno dell’accademia.

Quando l’incarico venne confermato, invece di sentirmi euforica, caddi in una pericolosa e profonda depressione.

Poiché chiunque intorno a me immaginava che mi sentissi sollevata, elettrizzata e orgogliosa, mi sentivo “in colpa” per i miei “veri” sentimenti, che non potevo condividere con nessuno. Un ciclo di conferenze mi portò nella soleggiata California e nell’universo New Age della casa di mia sorella a Laguna Beach, dove riuscii a rilassarmi per un mese.

Quando confessai le mie emozioni a mia sorella (psicologa), mi rassicurò sul fatto che fossero del tutto appropriate perché, disse, “Non hai mai voluto essere un’insegnante. Sin da bambina, tutto ciò che volevi fare era scrivere”. Aveva ragione.

Tutti hanno sempre dato per scontato che sarei diventata un’insegnante. Nel Sud della segregazione razziale, le ragazze nere appartenenti alla classe operaia avevano solo tre opzioni: sposarsi, lavorare come cameriere o diventare insegnanti. E poiché, secondo il pensiero sessista dell’epoca, gli uomini non desideravano affatto le donne “intelligenti”, si supponeva che qualsiasi dimostrazione di intelligenza segnasse il destino di una donna. Dalla scuola elementare in poi, fui destinata a diventare un’insegnante.

Ma, dentro di me, il sogno di diventare scrittrice era sempre vivo. Fin dall’infanzia, ero convinta che avrei insegnato e scritto. Scrivere sarebbe stato il lavoro importante, insegnare invece il lavoro “non-tanto-importante-ma-necessario-per-vivere”. Scrivere, questa era la mia convinzione di allora, aveva a che fare con il desiderio intimo e la gloria personale, mentre l’insegnamento riguardava il servizio, la restituzione alla propria comunità.

Per i neri, l’insegnamento – l’educazione – era fondamentalmente un atto politico, perché radicato nella lotta antirazzista. In effetti, le scuole elementari per neri sono diventate il luogo in cui ho sperimentato l’apprendimento come rivoluzione.

Quasi tutte le nostre insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire il nostro intelletto per darci la possibilità di diventare studiosi, pensatrici e operatori culturali – persone nere capaci di usare la “testa”.

Comprendemmo presto che la nostra devozione verso l’apprendimento e la vita della mente era un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca.

Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia rivoluzionaria della resistenza, profondamente anticoloniale. All’interno di queste scuole per bambine e bambini neri, chi era considerato eccezionale, dotato, veniva trattato con particolare cura.

Le insegnanti lavoravano con e per noi, per garantirci di realizzare il nostro destino intellettuale e, nel fare ciò, elevare la nostra razza. Le mie insegnanti avevano una missione.

Per portare a termine questa missione, si assicuravano di “conoscerci”. Conoscevano i nostri genitori, il nostro status economico, quale chiesa frequentassimo, le nostre case e come venivamo trattati in famiglia.

Sono andata a scuola nel momento storico in cui le mie insegnanti erano le stesse che avevano insegnato a mia madre, alle sue sorelle e fratelli. I miei sforzi e la mia capacità di apprendere sono sempre stati contestualizzati nel quadro di un’esperienza familiare lunga generazioni. Alcuni comportamenti, gesti, modi di essere venivano ricondotti alle mie origini.

Frequentare la scuola era, quindi, gioia pura. Amavo studiare, adoravo imparare. La scuola era il luogo dell’estasi: piacevole e pericolosa. Sentirmi trasformata dalle idee era piacere puro, ma scoprire idee contrarie ai valori e alle credenze apprese nell’ambito domestico significava accettare il rischio, addentrarsi in una zona pericolosa.

La casa era il luogo in cui ero costretta a conformarmi all’immagine di qualcun altro su chi e cosa avrei dovuto essere. La scuola era il luogo in cui potevo dimenticare quell’io e, attraverso le idee, reinventarmi.

Con l’integrazione razziale, la scuola cambiò completamente. Lo zelo messianico, teso a trasformarci e a plasmare le nostre menti – che aveva caratterizzato le nostre insegnanti e le loro pratiche pedagogiche nelle scuole per neri – era finito.

Improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo in cui una persona viveva e si comportava. Non era più collegata alla lotta antirazzista. Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci si aspettava da noi era l’obbedienza, e non la volontà zelante di imparare. La passione eccessiva per l’apprendimento veniva facilmente interpretata come una minaccia all’autorità bianca.

Il nostro ingresso nelle scuole razziste, desegregate e bianche ha segnato l’abbandono di un mondo in cui le insegnanti erano convinte che per educare i giovani neri nel modo più giusto fosse necessario l’impegno politico. Adesso invece avevamo per lo più insegnanti bianchi, le cui lezioni rafforzavano gli stereotipi razzisti. Per i giovani neri, l’educazione non riguardava più la pratica della libertà. Quando me ne resi conto, il mio amore per la scuola finì.

L’aula non era più un luogo di piacere o estasi. La scuola restava in ogni caso un luogo politico, dal momento che dovevamo continuamente contrastare i pregiudizi razzisti dei bianchi che ci consideravano geneticamente inferiori, mai capaci come i nostri coetanei bianchi – persino incapaci di imparare. Tuttavia, la nostra politica non era più contro-egemonica. Non facevamo che reagire e contrastare la gente bianca.

Passare dalle amatissime scuole per neri alle scuole bianche – in cui gli studenti neri erano sempre considerati intrusi, mai membri a tutti gli effetti – mi ha insegnato la differenza tra l’educazione come pratica della libertà e l’educazione che si sforza semplicemente di rafforzare il dominio.

Il raro insegnante bianco che osava resistere, che non permetteva ai pregiudizi razzisti di determinare il nostro insegnamento, rafforzava la convinzione che l’apprendimento nella sua forma più potente potesse davvero essere liberatorio. Alcune insegnanti nere si erano unite a noi nel processo di desegregazione. E, sebbene fosse diventato più difficile, continuarono a sostenere gli studenti neri anche se i loro sforzi erano resi meno efficaci dal sospetto che stessero favorendo la propria razza.

Nonostante queste esperienze fortemente negative, mi sono diplomata con la ferma convinzione che l’istruzione sia in grado di valorizzare la nostra capacità di essere persone libere. Quando cominciai a studiare all’Università di Stanford, rimasi affascinata dalla possibilità di diventare un’intellettuale nera ribelle.

Fu, allo stesso tempo, una sorpresa e uno choc sedere in classi in cui i professori non erano entusiasti dell’insegnamento e non sembravano avere la minima idea che l’educazione riguardasse la pratica della libertà. Negli anni universitari, l’unica lezione importante era sempre la stessa: dovevamo imparare l’obbedienza all’autorità.

Alla scuola di specializzazione l’aula era diventata un posto che odiavo, ma in cui lottavo per rivendicare e mantenere il diritto a essere una pensatrice indipendente. L’università e l’aula iniziarono a somigliare più a un carcere, a un luogo di punizione e di prigionia, piuttosto che a un luogo di promesse e possibilità. Ho scritto il mio primo libro durante quegli anni universitari, anche se è stato pubblicato solo anni dopo. Scrivevo, ma soprattutto mi preparavo a diventare un’insegnante.

Nell’accettare la professione di insegnante come destino, ero tormentata dalla realtà delle lezioni che avevo seguito sia come studente universitaria che come specializzanda. Alla stragrande maggioranza dei nostri professori mancavano le competenze di base della comunicazione, non si sentivano realizzati e spesso usavano la classe per inscenare rituali di controllo che riguardavano il dominio e l’esercizio ingiusto del potere. In questi contesti ho imparato molto sul tipo di insegnante che non volevo diventare.

Alla scuola di specializzazione ero spesso annoiata in classe. L’educazione depositaria (basata sul presupposto che memorizzare informazioni e rigurgitarle rappresenti l’acquisizione di conoscenze, che sono dunque depositate, archiviate e utilizzate in un secondo momento) non mi interessava. Volevo diventare una pensatrice critica.

Tuttavia quel desiderio era spesso considerato una sfida all’autorità. Lo studente bianco considerato “eccezionale” era quasi sempre autorizzato a tracciare il proprio percorso intellettuale, ma dal resto di noi (in particolare dagli appartenenti ai gruppi marginalizzati) ci si aspettava che ci conformassimo. Il non conformarsi era visto con sospetto, vuoti gesti di ribellione volti a mascherare inferiorità o lavoro scadente.

A quei tempi, chi di noi apparteneva a gruppi marginalizzati e riusciva a entrare nelle università più prestigiose, prevalentemente bianche, sentiva di non essere lì per imparare, ma per dare prova di essere uguale ai bianchi sforzandosi di mostrare la propria bravura nel diventare il clone dei nostri coetanei. Costretti a confrontarci costantemente con il pregiudizio, la nostra esperienza di apprendimento era resa meno efficace da una corrente sotterranea di stress.

La mia reazione allo stress, alla noia costante e all’apatia che pervadevano le lezioni era quella di immaginare i modi in cui l’insegnamento e l’esperienza di apprendimento avrebbero potuto essere diversi.

Nel lavoro del pensatore brasiliano Paulo Freire, la mia prima introduzione alla pedagogia critica, ho trovato un mentore e una guida, qualcuno che comprendeva il potenziale liberatorio dell’apprendimento. Attraverso i suoi insegnamenti, e la mia crescente comprensione del potere derivante dall’educazione che avevo ricevuto nelle scuole del Sud per neri, ho iniziato a sviluppare il progetto della mia pratica pedagogica.

Già profondamente coinvolta dal pensiero femminista, non ebbi difficoltà a sottoporre il lavoro di Freire a quella critica. Ero convinta che il mio mentore e guida (che non avevo mai conosciuto dal vivo), se davvero credeva nell’educazione come pratica della libertà, avrebbe incoraggiato e sostenuto la sfida che avevo lanciato alle sue idee. Allo stesso tempo, utilizzai i suoi paradigmi pedagogici per criticare i limiti delle lezioni femministe.

Nel corso dei miei anni di studi universitari e di specializzazione, solo le docenti bianche venivano coinvolte nello sviluppo di programmi di Women’s Studies. E anche se la mia prima lezione da studente laureata verteva sulle scrittrici nere da una prospettiva femminista, era nel contesto di un corso di Black Studies.

A quel tempo, compresi che le docenti bianche non erano desiderose di coltivare l’interesse delle studenti nere per il pensiero femminista e le relative borse di studio, soprattutto se quell’interesse includeva una sfida critica. Tuttavia la loro mancanza di interesse non mi hai mai scoraggiato dall’abbracciare idee femministe o dal partecipare alle lezioni sul femminismo.

Quelle aule erano l’unico spazio in cui venivano messe in discussione le pratiche pedagogiche, dove si supponeva che le conoscenze offerte alle studenti le avrebbero aiutate a diventare studiose migliori, a vivere più pienamente nel mondo oltre l’accademia.

L’aula femminista era l’unico spazio in cui ogni studente poteva sollevare domande critiche sul processo pedagogico. Queste critiche non erano sempre incoraggiate o ben accolte, ma venivano permesse. Quel briciolo di tolleranza verso le domande critiche rappresentò una sfida cruciale che ci invitava, in quanto studenti, a riflettere seriamente sulla pedagogia come pratica della libertà. [...]

© bell hooks, Insegnare a trasgredire, Meltemi 2021