27.02.2021
In che senso si può parlare oggi di differenza?
Stefano Righetti

I discorsi sulla differenza implicavano, possiamo dire, due piani: uno teorico, che indaga la differenza dal punto di vista concettuale e teoretico, e uno (chiamiamolo così) politico o sociale, in cui la differenza è assunta come problematica di classe, culturale, delle minoranze, di genere, ecc. Il piano della riflessione teoretica (che comprende anche la riflessione scientifica) si è però articolato prevalentemente, come ci ricorda Deleuze, sulla tensione dialettica tra differenza e identità. In questo contesto, la differenza non può definirsi che come differenza dell’identico (un po’ come ci spiegano i virologi con le mutazioni del virus) e con questo inevitabilmente in rapporto – legata all’identità come all’origine da cui essa stessa si genera o rispetto alla quale continuerà a rivendicare il proprio significato.

La mossa con cui Deleuze provava a spezzare la linearità della dialettica consisteva nel fare della linea ordinata in cui prende forma il rapporto differenza-identità nella dialettica una molteplicità non più riducibile ad alcuna origine: spezzare il rapporto con l’originario entro cui la ripetizione (quando la ripetizione è intesa come ripetizione dell’identico, come variante appunto) altrimenti la costringe. Una volta liberata dal modello dell’identità la differenza può allora affermarsi come un’alterità non più riducibile.

La ripetizione si mostra solo come ripetizione della differenza. Nulla, in questo molteplice, può più essere catalogato come il riferimento, lo scarto, la variazione di un’identità supposta come originaria. Le categorie che ordinano il reale secondo i principi di classificazione divengono improvvisamente inadeguate. Ciò che si ripete è sempre il differente. Il che può aprire per Deleuze a due cambiamenti di scala: una negazione della temporalità con cui si pretende di ordinare in successione lineare ogni presenza in funzione della sua origine; e, di conseguenza, un’effettiva co-presenza di ogni qui e ora entro una spazialità divenuta puramente empirica e contingente o, meglio, a una «distribuzione di caratteri differenziali in uno spazio di coesistenza» (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna 1971, p. 3). A quel punto anche i rapporti all’interno della vita e del vivente devono necessariamente cambiare forma. Tutti i rapporti di subordinazione che la classificazione istituiva devono anch’essi annullarsi: «Compito della vita è di far coesistere tutte le ripetizioni in uno spazio in cui si distribuisce la differenza» (Ibid., p. 4).

Se la differenza si dava nella dialettica come il negativo dell’identico, la differenza liberata dal riferimento all’identità originaria è un positivo che afferma se stesso nella forma di un’alterità ancora più assoluta perché coincidente unicamente con sé stessa. Ogni identità originaria non solo è negata, ma è ora impossibile. Non esistono che identità parziali e autonome, e pertanto solo differenze. Il vivente si afferma qui come un’eruzione esplosiva di forme irriducibili a qualunque categorizzazione.

Lo stesso rapporto inclusione-esclusione che le categorie hanno sempre determinato, in ragione della dialettica tra differenza e identità, deve a sua volta venir meno. Deleuze sa benissimo che l’apertura della differenza troverebbe sul piano sociale molti più ostacoli che su quello teoretico. Eppure (o, meglio, proprio per questo, come Ubaldo Fadini ci spiega nel suo testo), di fronte al negativo che la dialettica produce come differenza dall’identità, la differenza che egli rivendica è in grado di porre un «problematico e differenziale» capace di determinare forme di lotta «di fronte alle quali quelle del negativo non sono che apparenze» (Ibid., p. 5).

Che la dialettica fosse una legge almeno in parte da rivedere (specie sul piano sociale e politico) era stato registrato, qualche anno prima del libro di Deleuze, da Marcuse attraverso la teoria freudiana. La posizione di Marcuse è che la psicanalisi avesse aperto agli istinti la rivendicazione di un’alterità in conflitto con la normatività sociale. Dal momento che gli istinti non sono armonizzabili con le forme sociali, «[d]ietro a tutte le differenze tra le forme storiche della società, Freud intuiva la disumanità fondamentale comune a tutte e i controlli repressivi che, all’interno della struttura stessa degli istinti, perpetuano il dominio» (H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964, p. 25). Per questo motivo, Marcuse non poteva che prendere amaramente atto che contro la differenza, e contro la capacità di «giungere a modi radicalmente nuovi di ‘personalità’ e ‘individualità’» (Ibid., p. 252), il revisionismo psicanalitico della cura (il secondo Fromm, Horney, Thompson) non poteva che retrocedere, rispetto alle teorizzazioni freudiane, riaffermando il valore dell’identico e della sua morale, «come se nessuno avesse mai mostrato i loro tratti conformisti e repressivi» (Ibid., p. 252).

A quel punto, il conformismo (e cioè l’identico) può riprendere il controllo di «questa psicologia»: alimentare il sospetto che «tutti coloro che ‘sciolgono i propri ormeggi precedenti’ e diventano ‘radicali’, [siano] dei nevrotici (la descrizione si adatta a tutti, da Gesù a Lenin, da Socrate a Giordano Bruno)» (Ibid., p. 251).

La differenza deve ripiegare docilmente nel represso. Non si tratta di un superamento dialettico, semplicemente di una resa a quello che per Freud è il principio di realtà. La cui funzione potrebbe sintetizzarsi come un adattamento sociale produttivo. Non a caso, sottolinea Marcuse, per il revisionismo psicanalitico «produttività, amore, responsabilità, diventano ‘valori’ soltanto in quanto contengono una rassegnazione sopportabile e vengono esercitati nella cornice di attività socialmente utili» (Ibid., p. 253). Solo a quel punto l’adattamento alla repressione può farsi a sua volta promessa (l’unica consentita, ovvero realisticamente realizzabile) di felicità. L’integrazione nell’identità come unica esistenza possibile nella forma della rassegnazione produttiva.

Dobbiamo fare un salto nell’oggi. Perché il modello di questa integrazione, che non ha lasciato alternative possibili alla differenza, che l’ha forzosamente costretta entro la dialettica dell’identità, promettendole l’inclusione nell’unica modalità consentita (il farsi produttivo dell’identico) sembra alla fine aver ribaltato il sacrificio dell’auto-repressione in ulteriore inganno. Il modello sociale che pretende la rassegnazione all’identità stabilita è infatti da ultimo quello che produce, in modo sempre più esteso, anche la propria differenza nelle forme della sua esclusione necessaria.

L’auto-repressione non garantisce ormai più alcuna inclusione nell’identico. Il funzionamento dell’attuale apparato produttivo richiede alla morale della rinuncia uno sforzo e un sacrificio ancora più estremi: una volta interiorizzato il modello produttivo dell’identico, occorre rinunciare ora anche alla misera aspirazione all’identità che questo prometteva, per adattarsi all’esclusione di una precarietà indefinita, entro la quale il modello sociale produttivo può tornarsi a porsi nuovamente come l’unica legittimo miraggio, e dove l’utopia assume le insegne del conformismo. Involuzione perfetta e vittoria assoluta dell’identico. Nel cuore del neo-liberismo la differenza ha lasciato il posto all’affermarsi dell’esclusione. Varrebbe la pena rileggere Deleuze e Marcuse. Anche in modo critico, ma riprendendone il filo.