Francia, 11 Luglio 2019. Il ministero della difesa nazionale, per mezzo dell’ADI (Agence Innovation Defence), pubblica un appello atto alla formazione di un red team composto da specialisti capaci di rispondere alle più imprevedibili minacce future: è il progetto Imaginer au-delà volto a cogliere nuovi scenari bellici tra, per l’appunto, immaginazione e realtà. Ciò che solleva il nostro interesse è la figura ricercata a tal fine: non fisici quantistici, neppure esperti di balistica o di armi biochimiche, ma «prospectivistes et auteurs de science-fiction» come si può leggere a pagina 22 del documento https://www.defense.gouv.fr/english/aid/actualites/le-document-d- orientation-de-l-innovation-de-defense-doid.
Ci si può domandare la ragione per cui una delle prime potenze economiche europee intenda basare la propria ricerca sugli scenari futuri della sfera globale non tanto sugli insegnamenti di Erodoto o Hobsbawm quanto su quelli di Asimov o Orwell. Come si possa, in ultima istanza, pretendere di interpretare il futuro a partire dal futuro stesso.
È Koselleck ad interrogarsi sulla temporalità storica e precisamente sull’accelerazione che può interessare la progressione degli eventi e il modo in cui di conseguenza l’uomo si rapporta al proprio presente. Nella geschichtliche Zeit, il «tempo storico» fuori dal manuale accademico e impresso nelle membra degli individui, la storia appare come un rapporto tra lo «spazio d’attesa» e l’«orizzonte d’aspettativa» (R. Koselleck, Futuro Passato, 2007, p.300), categorie tanto antropologiche che storiografiche, capaci di dar conto della trasformazione del tempo sociale in base al loro rapporto di simmetria: la modernità si caratterizza così, rispetto alle temporalità precedenti, come un salto nell’ignoto o l’ingresso in una stagione rivoluzionaria che apre nuovi orizzonti, capace di far tramontare definitivamente un motto, quale Historia magistra vitae, che sino a quel momento guidava l’indagine storiografica. Una modernità, per Koselleck, caratterizzata dall’esser costantemente protesa in avanti. Possiamo dire di appartenere ancora a questo tempo? Oppure una temporalità altra scandisce il nostro presente storico? E quali soggettività interessa?
Nel suo ultimo contributo su Tropico del Cancro Righetti fa riferimento alla folla, nella sua distinzione dalla massa e nel suo confluire infine in quest’ultima, come anima della modernità: controparte dialettica di questo soggetto sociale e interessato a sua volta da una repentina trasformazione in epoca moderna è lo statuto dell’oggettività. Un’oggettività ripensata da un autore come Baudrillard prima nei termini di un Sistema degli oggetti (1979) per giungere infine ad un ribaltamento della concezione metafisica tradizionale della realtà stessa, al suo delitto. In questo suo tentativo Baudrillard pare annunciare, senza mai produrne specifiche definizioni, l’ingresso nel postmoderno.
È il rigoglio della produzione che scandisce i Trenta gloriosi a portare ad una nuova passività, o meglio indifferenza, delle masse, risultante anche dai nuovi e sempre più onnipresenti apparati mediatici. Se la forma urbana della folla poteva mantenere delle caratteristiche di vitalità e positiva energia entropica, le masse degli Stati-nazioni «non sono buone conduttrici del politico, né buone conduttrici del sociale, né buone conduttrici del senso in generale. Tutto le attraversa […] ma tutto vi si diffonde senza lasciare traccia» (J. Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose o la fine del sociale, 2019, p.25).
In un mondo dove la produzione industriale getta tra le braccia dei consumatori più prodotti di quanti siano i nomi capaci di nominarli, si genera uno sbilanciamento tra la sintassi delle parole e quelle degli oggetti a favore dei secondi: gli oggetti generano un linguaggio surrettizio che si instaura nelle maglie della società, tessendone le trame. Una loro analisi consente un ritorno al piano macroscopico del sociale con una nuova maturata consapevolezza: la società si sta trasformando così come il modello produttivo capitalistico che la sottende. Occorre chiedersi come si possa agire per evitare che la tragedia novecentesca della massa si riproponga quest’oggi come farsa.
Un tentativo che Baudrillard accoglie, più che dal versante costruttivo di una teoria sistematica, dal lato caustico della critica – un pensatore “sovversivo” stando ad una recente pubblicazione di Latouche (S. Latouche, Baudrillard o la sovversione attraverso l’ironia, 2016). Il sociologo non si ferma infatti alle acquisizioni del Veblen della Teoria della classe agiata – in cui l’oggetto (posseduto, prima che consumato) consente un riconoscimento sociale in una prospettiva orizzontale che identifichi l’individuo con i suoi simili e verticale gerarchico che lo distingua da altri – ma si spinge oltre, indagando il rapporto dialettico, ma mai risolto, che interessa l’uomo nel suo rapporto con l’oggetto.
Questo rivoluziona tanto la concezione dell’oggetto quanto quella del soggetto; e tutta la sua produzione intellettuale successiva al ‘79 tenterà, in linea con lo strutturalismo, di rivalutare tale relazione a favore del primo termine. L’oggetto tenta quasi una “vendetta” nei confronti di un soggetto che, in particolar modo nella modernità, si è sentito capace di controllarne l’evoluzione e il senso, traslando tale potere sino a farsi demiurgo della storia stessa. Tale vendetta si sostanzia non in una mera distruzione del soggetto a favore di uno sfrenato oggettivismo, ma in un esser inghiottito nel nulla dell’oggetto stesso.
Se Merleau-Ponty parlerà di un chiasma, di una relazione inscindibile del soggetto con l’oggetto, lo stesso farà Baudrillard ma in termini opposti: rispetto ad una opzione che riabilita entrambi i lati della relazione, facendoli proficuamente dialogare, Baudrillard rifiuta la realtà, la sostanza di entrambi i termini. Così il corpo-proprio del soggetto, preso in tale dinamica, si oppone ad una nozione quale quella di Leib: ciò che resta del corpo e la sua essenza simulacrale, sostrato insignificante in quanto portatore di ogni significato. Il corpo si aggiunge, paradossalmente a quella pletora di oggetti che stazionano, e si relazionano, di fronte a noi: il rapporto dell’uomo con gli oggetti e i corpi può sintetizzarsi in una relazione meccanico-istintuale, come quello che si instaura tra un interruttore ed il gesto motorio che intende attivarlo (o vocale, nella moderna domotica).
A questa decostruzione del soggetto e delle sue capacità reattive, corrisponde un collasso del principio di realtà, dell’orizzonte di senso del mondo. Se Marx intende penetrare la patina che ricopre l’ideologia liberale scendendo nei segreti laboratori della produzione, in quell’oscurità malcelata in cui si annida il principio dell’accumulazione capitalistica e del suo sfruttamento, Baudrillard, se pur certo non intende disconoscerne le conquiste teoriche, si incarica di rivelare l’epilogo del reale a causa di un suo eccesso di manifestatività. Se per il Marx del Capitale gli oggetti prendono in qualche modo vita, secondo la celebre definizione che apre al feticismo della merce, in Baudrillard gli oggetti iniziano un vero e proprio dialogo, che problematizza la possibilità di un loro ordinamento in termini semplicistici.
Il passaggio da un paradigma della produzione ad uno della circolazione non nasconde ovviamente le diseguaglianze sociali, che è anzi ciò di cui lo stesso sistema si nutre, ma ne perde irrimediabilmente l’origine. Ciò che si guadagna è tuttavia la rimozione di una certa postura inerziale che caratterizzava l’atto del consumo, portando a manifestazione anche la sua capacità attiva di costruzione di rapporti tra l’individuo e la collettività. E sono questi rapporti ad essere problematici, in particolar modo quelli legati al mondo dell’informazione.
I media contemporanei esercitano degli effetti sociali non facendo ricorso alla manipolazione o alla censura, ma utilizzando l’eccesso di comunicazione che si trasforma nel suo contrario: la visibilità totale o trasparenza. Se non vi è apertura al futuro e perché il circo-lo mediatico esaurisce la storia, esautora le sue possibilità, catturando l’attenzione del pubblico su un eterno presente in cui la memoria perde la sua funzione di guida e senso perché sostituita da una sorta di memoria fittizia che non può più connettersi a nulla di originale.
E così che una società ipercomunicativa ma priva di comunicazione, ipermnemonica ma priva effettivamente di memoria, fondata sullo scambio ma che ivi ritrova le sue contraddizioni, entra in cortocircuito. Non può stupire, allora, che sia nel futuro o nella narrazione fantastica che ci si attende di trovare qualche elemento profetico, al di là del fondamento storico.
C’è in questo, tuttavia, un grande rimosso: il tema della natura, così come quello della storia. È interessante notare come sorga dalla narrativa fantascientifica, quasi per ironico contrappasso, la climate fiction (cli-fi) aderente al tema dei cambiamenti climatici e delle problematiche ecologiche, per nostra sfortuna sin troppo reali. Una realtà che incede e che si fa sempre più pressante, dai fuochi dell’Australia del 2019 alla pandemia globale attuale, che infetta con una palese nota di pessimismo i nostri stessi immaginari.
Occorre spingersi dunque oltre Baudrillard, cogliendo quelli che sono processi evidenti che interessano una realtà tutt’altro che virtuale, pur tuttavia non volgendogli le spalle, in quanto nulla toglie smalto ad un pensiero critico che intende svelare le dinamiche deteriori della sfera pubblica. Un esempio tra tutti: se dovessero chiederci oggi chi stabilisce l’efficacia del vaccino AstraZeneca, ci sentiremmo sicuri nel dire che a farlo sono istituzioni sanitarie sovranazionali piuttosto che testate giornalistiche locali?
Se il peso dell’informazione e della tecnologia ricopre un ruolo sempre maggiore nelle nostre vite, per cui «il nostro ambiente reale è già da ora l’universo della comunicazione» e si distingue «radicalmente dai concetti di ‘natura’ o di ‘ambiente’ del XIX secolo» (J. Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, 1974, p. 218), ad essere infettati da virus, così come da povertà e marginalizzazione (mali endemici ben prima della SARS-CoV-2), sono sempre i nostri corpi, calati nello spazio e nel tempo, che né gerarchie imposte dagli oggetti, né la virtualità dell’infosfera sono in grado di eludere.
La speranza, in conclusione, è che un recupero del ruolo e del senso della storia, così come di una sensibilità ecologica (in senso non meramente ambientale o di pratiche green) possano correggere, o quanto meno attenuare, il collasso non tanto della realtà, ma del nostro presente.