Il surrealismo. Sul motivo dell’ebbrezza
Melania Moltelo

24.06.2021

Nell’età del “disincanto del mondo” il surrealismo ha catturato l’attenzione di quanti interessati a infilare la testa tra le sbarre fin troppo rigide della logica (un gesto che Nadja, la donna-fantasma, incarna nel celebre libro di André Breton) per accedere a quel “palinsesto” sotterraneo in cui si concentrano incontri fortuiti, incanti, imprevisti, affinità disattese. M. Löwy, un po’ di anni fa, ha dedicato un testo al movimento francese, intitolato La stella del mattino, riconoscendo quest’ultimo come quel “martello magico” in grado di distruggere la “gabbia d’acciaio” della modernità per liberare l’ingresso alla ventosità del sogno. Ma è il saggio di Walter Benjamin del 1929 a costituire la principale chiave d’accesso a una delle novità artistiche e politiche più incisive del secolo scorso. Come bene inquadra Ferruccio Masini, il testo ruota intorno al motivo dell’ebbrezza.

A introdurci al tema dell’ebbrezza è quella – un po’ bislacca – immagine in movimento delle “case di vetro” come negazione immediata della privacy e sovversione della coercizione identitaria promossa dal’interiéur borghese. È la miseria, “non solo quella sociale, ma anche e altrettanto quella architettonica”, che ci lascia intravedere una trama segreta tra le vicende dei primi surrealisti e i campi di intensità scoperti e tematizzati qualche anno più tardi dallo stesso Benjamin come risultato del crollo delle quotazioni dell’esperienza.

L’ebbrezza, per tornare (anche) a Masini, va sottratta alla prigionia del “privato” e ai tentativi di farne il paradigma di un turgore dell’Io. Quello che Benjamin avverte è l’intreccio non metaforico tra il momento pubblico e il momento privato, che si traduce in una “responsabilità” da non considerarsi più come l’abbinamento di una prassi a un ideale moralistico, ma da cogliere nel suo senso immediatamente politico.

L’ebbrezza coincide con la scopertura di quello spazio in cui l’ordinario e l’imprevedibile si incrociano fino a provocare un inedito rilascio dell’Io: c’è un modo di essere ebbri che implica una qualche forma “stravagante” di sobrietà. Questo “spazio immaginale assoluto”, così come Masini traduce il termine Bildraum adoperato da Benjamin, che si origina dalla frequentazione dei luoghi dimenticati e delle cose invecchiate o sul punto di invecchiare, dalle vertigini dell’amore, da quella solitudine in cui non si coincide mai con se stessi, non è uno spazio dove si produce solo contemplazione, ma è connesso a una trasformazione effettiva della percezione umana nella direzione di un “eterno tramonto dell’uomo interiore” fino all’innervazione di un corpo del collettivo.

È proprio l’allentamento dell’Io e il dischiudersi della dimensione collettiva a disgregare il senso dell’ebbrezza come motore di una esperienza esclusivamente estatica e individuale, aprendo a una rivoluzione percettiva che comporta una nuova disposizione del soggetto nell’esperienza con la sua costitutiva parzialità e con l’altro da sé.

La posizione “impegnata” degli intellettuali di sinistra non è sufficiente a provocare quella “coesione” sovversiva a cui solo una nuova trasparenza, in cui si ha una decomposizione dell’autosufficienza delle qualità dello spirito e una riconfigurazione dell’Io, allude spingendo la stessa poesia fino al limite del possibile, fino a cancellare la linea di separazione tra veglia e sogno.

I surrealisti, in un mondo sempre più dominato dal calcolo e dalla ragione autoritaria, hanno tentato di sentire il soffio dell’imprevisto che scompagina gli ordini dati, di afferrare così la vita “al di fuori del suo piano organico”. È per questo che la frase di chiusura del Primo manifesto del surrealismo risulta qui decisiva: “Vivere e cessare di vivere sono soluzioni immaginarie. L’esistenza è altrove!”. L’appello all’altrove non è una dimenticanza del reale concreto, ma il proposito di dispiegare la vita come campo sterminato di occasioni di trasformabilità sempre e comunque in parte realizzabili.