Il supporto indiscreto
Raffaele Santoro

01.04.2021

Nel 1969 lo storico dell’arte americano Mayer Schapiro applicava alla teoria dell’immagine pittorica d’età moderna una distinzione netta fra elementi mimetici e non-mimetici dell’opera d’arte. Tra i diversi contributi che si muovono in questa direzione, quello di Schapiro è sicuramente tra i più puntuali e precisi nell’inquadrare le problematiche legate al supporto.

Si apre, così, un più ampio campo di indagine analitica che prevede un esame interpretativo e critico che vada al di là della tirannia del segno iconico – e figurativo – per farsi carico di porzioni dell’immagine che, per quanto precedentemente ignorate, partecipano e collaborano alla fabbricazione del senso pittorico. Per Schapiro, infatti, tra i differenti elementi non-mimetici rintracciabili nell’opera d’arte la superficie pittorica svolge una funzione impossibile da sottovalutare; collocandosi, a pieno titolo, nel solco di quella scienza dei linguaggi mediali a cui abbiamo accennato nel precedente articolo con i casi di Paul Valéry e Walter Benjamin.

Un’ulteriore analisi teorica atta a definire l’efficacia del supporto all’interno dell’economia dell’immagine pittorica è, senza dubbio, quella di Louis Marin. A tale proposito, il pensatore francese non dimentica di menzionare tra i «dispositivi di presentazione della rappresentazione» (Marin 1987, p. 198) proprio il piano, la superficie, su cui il rappresentato si palesa e si manifesta. Marin ritornerà su questo particolare elemento a più riprese: dimostrandone la funzionalità tanto nel panorama artistico barocco, quanto nello scenario novecentesco.

Le pratiche artistiche contemporanee e a noi più vicine sembrano proiettare sulla superficie pittorica azioni di conflitto tra oggetto e sguardo; muovendosi, in maniera sempre più radicale, sull’orizzonte di un rapporto rinnovato all’insegna della tattilità visiva. Già in Strategie di resistenza: immagine pittorica e tra(s)duzione digitale (qui pubblicato) abbiamo posto alcune criticità legate all’ambito della rappresentazione e dei suoi dispositivi di funzionamento, includendo tra questi anche il supporto.

La continua e reiterata tra(s)duzione digitale a cui la pittura è sottoposta in questa specifica fase pandemica, ci porta a considerare la superficie di iscrizione come uno degli elementi automatici e autonomi di resistenza alle politiche di ri-mediazione digitale. Strategie, queste, intrinseche all’opera e di cui essa si serve per resistere ad una perdita di fisicità che non coinvolge unicamente il piano della spazialità dell’oggetto artistico ma, soprattutto, l’ambito degli stimoli visivi che essa innesta e le modalità percettive che ne conseguono. Meccanismi che si rintracciano, in tutta la loro potenza evocativa, quando il supporto entra prepotentemente nel regime scopico dell’osservatore.

In Leek.Starlet (2019) di Sofia Silva (1990) la superficie è presentata soltanto come potenziale sede di sviluppo figurativo. L’opera, infatti, innesca un rovesciamento in cui la possibilità compositiva – il surplus creativo – non riguarda l’ambito del formale e del figurativo bensì la sfera del supporto e, in particolare, della tela. Sovrapponendo tra loro più strati di tessuto, l’opera lascia emergere la dimensione tattile del supporto delegando a quest’ultimo tutto il potenziale rappresentativo. L’oggetto materiale e grezzo abbandona così il suo statuto di elemento subordinato ed entra a far parte dell’opera attraverso una pratica di collage che sembra, ad ogni nuovo livello aggiunto, ribadire l’elemento precedente e, contemporaneamente, negarlo.

Ancora sul filo del sovrapposto e dell’aggiunto si gioca la partita di una, seppur abbozzata, iscrizione figurativa. Le figure che Sofia Silva lascia affiorare dal colore naturale e opaco della tela ci parlano di forme pure, di dettagli e di impasti cromatici le cui ambizioni generative sono costrette ad uno stadio larvale. Nella loro incompiutezza e indefinitezza queste figure affondano un’attenta e profonda riflessione nel pittorico. Un pensare all’energia creativa della rappresentazione servendosi dei suoi strumenti canonici e, soprattutto, rovesciandone i canoni e le posizioni di potere.

S.Silva, Leek.Starlet, 2019, collage e tecnica mista, cm.83x63 Courtesy the artist, ph. C.Favero

Un ultimo appunto su Leek.Starlet va fatto ancora nel solco del rapporto tra oggetto artistico e osservatore, notando come la cornice di alluminio ben levigata sembra rigettare al mittente lo sguardo indiscreto. Il suo riflesso disturba, distrae e quasi rifiuta di darsi allo spettatore in un gesto dal sapore pudico che tenta di preservare arcani misteri portando con sé immagini ammalianti.

Dalla sintassi pittorica germinale di Sofia Silva ci spostiamo, con il lavoro di Helene Appel, ad un caso di più compiuta figurazione. Nell’opera Pasta (2016), infatti, il supporto riveste un ruolo maggiormente ambiguo rispetto a quanto visto sinora: qui la superfice di iscrizione non si oppone alla massa pittorica ma, al contrario, ne asseconda la diffusione e addirittura il suo agglomerarsi in forme intuitivamente riconoscibili. È in questo modo che due pennette dominano lo spazio dell’opera: oggetti semplici, propri di una dimensione ordinaria – quella del pasto – che si intrecciano con un’ulteriore pratica quotidiana: quella pittorica.

H.Appel, Pasta, 2016, olio su tela, cm.6x2,5 Courtesy the artist and P420-Bologna, ph. M.Schneider

Nonostante l’aria dimessa e priva di scontri che apparentemente domina la concisa figurazione del dipinto, a ben vedere, l’opera restituite le tracce di un conflitto che ha, quale terreno di battaglia, il supporto. Così, quest’ultimo, favorisce il proprio compito di veicolo di messaggi – avvia un’ipotesi narrativa – ma, allo stesso tempo, rinuncia solo parzialmente al suo essere oggetto fisico e indipendente da quanto rappresentato.

La discreta e temporanea concessione che il supporto offre al figurativo si colloca, dunque, in un’azione che ribadisce energeticamente il ruolo di dispositivo che il quadro intrinsecamente riveste. Da qui, senza abdicare totalmente alla sua vocazione ostensiva, l’immagine artistica offerta da Helene Appel è in grado di indirizzare la nostra attenzione sul polo opposto a quello della rappresentazione: la natura finzionale, la messa in scena, che la pittura cela in se stessa.

Richiami a questa dimensione percettiva dell’opera vengono ribaditi anche dall’assenza della cornice come principio di separazione e, in qualche modo, sublimazione dello spazio artistico. La tela nella sua grezza materialità, nonché priva di “squadratura”, si lascia osservare nei suoi lineamenti imperfetti e sinuosi capaci di distogliere l’occhio dalla resa formale – la cui ambizione a trompe-l'oeil è esplicitata dal piccolo formato utilizzato – per indurci in quel territorio opaco in cui l’opera svela, attraverso il dettaglio, la sua artificiosità.

Servendosi di operazioni differenti e soluzioni formali pressoché antitetiche, i lavori delle due artiste offrono un esempio eloquente di quelle strategie di resistenza che permettono all’immagine pittorica di opporsi ai fenomeni di tra(s)duzione digitale. Nonostante la dispersione fisica del quadro, la sua sottrazione materiale e lo schermo come unico medium di fruizione, l’opera riesce ad affermare se stessa e, soprattutto, ad affermarsi davanti allo spettatore. All’interno di una cooperazione inconscia, l’occhio e l’opera ricorrono alla superficie grezza, si lasciano trasportare da questa – vi si aggrappano in un moto disperato – e in qualche modo ne sono risollevati. Si ritrova così, proprio partendo dall’elemento non-mimetico, la natura tangibile, concreta e tattile del pittorico; laddove all’egemonia del pixel il quadro oppone un supporto altrettanto esplicito, manifesto e – pertanto – “indiscreto” allo sguardo indagatore.