Il ritorno dello chiffonnier: Parigi capitale del XXI secolo?
Manlio Iofrida

29.10.2021

Dopo la seconda guerra mondiale, nell’epoca dei Trenta Gloriosi, e in particolare nel decennio '60-'70, a Parigi è sembrata dominare un’idea di modernità unilaterale, di modernizzazione senza limiti, simboleggiata, a livello architettonico, dallo spuntare delle grandi Torri, dalla distruzione delle vecchie Halles e dalla costruzione del cupo quartiere de La Défense; questo iperartificialismo sembrava confermato dal fatto che la seconda rivoluzione industriale in Francia si appoggiava su uno dei parchi di energia atomica più ricchi del mondo.

Con gli anni Novanta, la città era sembrata accogliere, un po’ passivamente e mestamente, la moda del postmoderno e, con la sua deindustrializzazione e la sua parziale riduzione a città di servizi e di turismo, i temi della velocità, della smaterializzazione e della comunicazione, che erano sempre stati nelle sue corde, erano sembrati oscurare tutti gli altri.

Un lavoro collettivo appena pubblicato (AA.VV., La beauté d’une ville. Controverses esthétiques et transition écologique à Paris, Paris, Pavillon de l’Arsenal et Wildproject, 2021), collegato all’omonima mostra che si può vedere fino a Febbraio 2022 al Pavillon de l’Arsenal, ci suggerisce invece che forse oggi siamo entrati in una fase nuova; forse la Parigi di Charles Baudelaire, di Siegfried Kracauer e di Walter Benjamin, la cui modernità aveva uno spessore fatto di complessità, di ambiguità e di contraddittorietà, stava solo dormicchiando e finalmente torna a timidamente riaffiorare?

Questa improvvisa sensazione di respirare un’aria nuova e insieme di trovarsi nel filo della grande tradizione ottocentesca del moderno parigino è certo dovuta soprattutto al fatto che, nella pluralità delle voci che si ascoltano nella mostra, è centrale - novità non piccola a Parigi - il tema dell’ecologia, che pare essere ormai entrato nell’agenda di almeno una parte importante dell’ élite politica e culturale della capitale francese.

Certo, l’iniziativa di cui stiamo parlando è sotto l’ala dell’attuale sindaca di Parigi Anna Hidalgo: in quanto sindaca, la sua politica ambientalistica ha portato dei miglioramenti indubbi nella capitale, ma come dimenticare che la stessa Hidalgo è candidata presidenziale di un PS che, sotto François Hollande, è stato uno dei più compromessi d’Europa nella sua subalternità alle politiche neoliberiste?

Formulate queste premesse molto cautelari, vediamo cosa emerge dal volume e dalla serie di interviste filmate che all’ Arsenal ne costituiscono una presentazione. Il filo conduttore è l’estetica, o meglio: l’estetica come forma fondamentale della politica moderna.

Qui il lettore-visitatore tira subito un sospiro di sollievo: non sta per essere messo di fronte a una delle consuete e ormai insopportabili tiritere ispirate un po’ a Heidegger e un po’ a Carl Schmitt sul “politico” contemporaneo come estetica ecc.; il centro del discorso è dato invece dal tema dell’ “abbellimento della città” come movimento che, nella modernità, fin dal XVIII secolo, ha visto crescere insieme (conflittualmente e contraddittoriamente, beninteso) un processo di razionalizzazione e l’esigenza e l’utopia di una vita migliore, di una città che potesse essere goduta dai suoi abitanti.

La modernità è stata l’investimento della vita da parte del capitalismo e della produzione, ma anche la reazione a tale processo, con la rivendicazione di condizioni di una vita giusta e bella.

Certo, questo può essere interpretato come riformismo piatto e può sottendere un ecologismo che sia semplice declinazione di un “capitalismo verde”, ma sarebbe riduttivo escludere che da questa impostazione si possa ricavare qualcosa di più: questo sottomettere la razionalità strumentale al gusto, alla soggettività dei cittadini non può generare aperture molto più radicali?

Insomma, nel Pavillon de l’Arsenal, che si trova proprio nel centro di Parigi, mi è sembrato che, discreti ma inequivocabili, si aggirassero i fantasmi di Baudelaire, Kracauer e Benjamin.

Nell’ ampia varietà di voci che compongono il volume e la mostra, il filo comune è dato quindi da una ricostruzione della volontà di “embellisement de la ville” che parte dal grande processo Illuministico, attraversa il XIX secolo, e, dopo la parentesi degli anni della seconda rivoluzione industriale, assume nuova forza e vigore di protagonismo nel XXI secolo, quando cadono i miti della modernità prometeica e la questione ambientale e ecologica diventa centrale per una nuova forma di abitare e di vivere.

Che si tratti dei giardini o dei marciapiedi, di arredo urbano o di turismo, di flussi o di stock, da quasi tutte le angolature la questione dell’architettura, in quanto questione politica del vivere insieme e abitare oggi, rimandava incessantemente al problema ecologico; e la coscienza di un nuovo presente apre ogni tanto degli squarci di visibilità retrospettiva sulle varie fasi del processo di modernizzazione a partire dal ’700: ne mette in evidenza le crepe, i detriti, bagliori e indizi di un futuro diverso, di un’altra possibile modernità.

Questa si è svolta come razionalizzazione produttivistica e capitalistica, come processo di disciplinamento e di spoliazione dei soggetti, ma ha anche operato la liberazione del momento della vita dai vincoli delle tradizioni immodificabili, dalla storia come destino: sulla sua superficie o sul suo rovescio è dunque leggibile e praticabile una storia completamente diversa da quella millenaria dell’oppressione dell’uomo sulla natura e sull’altro uomo.

È questa modernità dialettica o questa dialettica della modernità che si fa incontro al lettore-spettatore intelligente (per citare Marx).

Solo qualche breve notazione più particolare su questa nuova visione retrospettiva della modernità che la centralità odierna del tema ecologico riesce ad aprire.

La prima riguarda il nesso fra questione della natura e questione della storia che si fa centrale soprattutto nella Parigi del XIX secolo: come diceva Kracauer, la grande città è il luogo in cui riemerge con forza il problema della natura, che non è solo questione dell’agricoltura, ma più in generale problema di un nuovo modo di organizzare il rapporto fra la nuova vita sociale cittadina e l’ambiente: voler rendere la nuova città conforme alla nostra vita significa già porsi il problema di una produzione che si misuri col problema della natura, che cerchi non solo di essere attiva, ma anche recettiva, passiva nei suoi confronti.

Ma altrettanto vero è che nella Parigi del XIX secolo si è posto il problema di un rapporto con la storia: di un modo di costruire il nuovo che non fosse distruttivo del vecchio.

Non deve quindi sorprendere che dello stesso progetto haussmaniano emergesse ripetutamente (Pichon, Gaudy) un giudizio meno negativo: in esso la questione del rispetto della natura (per quanto distruttive possano essere state le scelte del prefetto di Parigi e per quanto le critiche di Victor Hugo e Baudelaire cogliessero nel segno) ha saputo mantenere un po’ di legami anche con l’esigenza del rispetto della storia; e lo sviluppo urbano di Parigi fino alla seconda guerra mondiale appare in continuità con questa impostazione haussmanniana: la città ha continuato a estendersi, almeno nel suo nucleo centrale, in orizzontale e non in verticale.

In questo senso, ci ha felicemente stupito sentire associare, nell’intervento di Alexandre Gady, Parigi (nel suo nucleo centrale hausmanniano) a Roma, proprio per essere entrambe caratterizzate da un’ orizzontalità che permette al nuovo di convivere col vecchio e di fare della città lo specchio di varie epoche storiche.

Sempre in questa direzione di una modernità che non è rottura assoluta del tessuto storico, ma che sa coniugare la creatività innovativa con il rispetto della storia, è suggestivo veder ricomparire, nell’intervento di Gwenola Wagon, la figura dello chiffonnier: questo archetipo baudeleriano fu da Kracauer e Benjamin elevato a simbolo di una capacità di far emergere dagli scarti e dai rifiuti, da ciò che è più basso e umile e oppresso, il profilo di una vita liberata; a questo significato di redenzione storica oggi lo chiffonnier congiunge la valorizzazione più letterale, in senso ecologico, della sua azione, che fu quella del riciclo e del riuso.

Infine, una notazione di carattere più generale e filosofico, che è probabilmente più nostra che nell’intento esplicito di chi ha organizzato o partecipato all’iniziativa: dal complesso degli interventi viene spontaneo pensare a un’idea di libertà su cui in Tropico del Cancro si è più volte insistito: la libertà dei moderni appare molto diversa sia da quella individualistica di tipo liberale che da quella roussoviana che ha la sua espressione nella volontà generale: piuttosto si è indotti a concludere che, nella tensione morale a costruire una città bella e giusta, l’azione del singolo è l’altro aspetto del suo rapporto col mondo e con gli altri - che la libertà non è solo azione, ma è anche passione del mondo e dell’altro.

Dobbiamo dire che, da questo punto di vista, non possiamo che stupirci di questa rinnovata vitalità di Parigi: stordita lungo tutto il periodo successivo alla caduta del Muro e della egemonia della potenza unica statunitense, che ha anche visto la scomparsa dei suoi ultimi grandi maîtres à penser, la capitale francese sembrava condannata, come il resto d’Europa, al ruolo secondario di una provincia di lusso, dove ormai nulla di nuovo viene creato; senza farci troppe illusioni sulla sua élite politica, in quella culturale avvertiamo la possibilità che la Parigi del XIX secolo dai già citati Kracauer e Benjamin possa essere re(i)stituita: che la Parigi di oggi possa « dare al [suo] passato non già una sopravvivenza, che è una forma ipocrita dell'oblio, ma una nuova vita, che è la forma nobile della memoria » (Merleau-Ponty).