Tropico del Cancro
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11.01.2021
Il ritorno della storia, fine di un'epoca

Manlio Iofrida



Senza che ce ne siamo resi conto, senza che nessuno l’abbia tematizzata, oggi, come una presenza oscura, ma sempre più ingombrante, è riapparsa nelle nostre vite da protagonista la storia. Che sia presente fra tutti noi ancora in modo assai nascosto è dovuto alla grande rimozione che di essa è stata effettuata a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo. Ma, innanzitutto, questa latente, ma nello stesso tempo ingombrante e imponente presenza a quali circostanze si deve attribuire? Innanzitutto, certamente, alla attuale pandemia: essa ha rappresentato, in primo luogo, il riaffermarsi dell’irriducibilità del dato naturale nella forma della catastrofe e dell’evento improvviso; ma, a partire da questo, la pandemia impone a tutte le nazioni della terra di dibattere in comune e di operare in comune per modellare il proprio destino; questo dibattito comune e questo operare comune come possono prescindere da una ricognizione attenta del proprio passato e da una intelligenza preveggente del proprio futuro? E dall’esame approfondito del senso della propria cultura e della propria civiltà a confronto con le altre? Ora la storia, nel suo senso migliore e beninteso, non consiste che in questo insieme di atteggiamenti, di pensieri e di pratiche. Ma, in secondo luogo, la storia era rientrata assai più sommessamente sui nostri palcoscenici assai prima del Covid-19, non nella forma dell’evento improvviso e catastrofico, ma in quello della geopolitica: soprattutto con l’inizio di questo secolo il dominio della potenza unica americana si è trasformato in un’egemonia assai contrastata e limitata; ciò ha coinciso con un declino dell’Occidente ed è in parte, ma solo in parte, uno degli esiti a lungo termine della decolonizzazione. In ogni caso, in un duello pacifico e a tratti bellicoso, che include l’economia, la forza militare, la cultura, fra loro legate inestricabilmente, tornano a confrontarsi oggi potenze grandi - Usa, Cina e Russia (grande almeno militarmente)- e potenze medie e minori - Iran, Turchia, vari stati arabi, il Brasile, il Sudafrica, e, infine, l’immenso subcontinente indiano. L’ Europa, con la vicenda Covid, sembra a sua volta aver subito una precipitazione positiva di identità e comincia a presentarsi come un polo di valori politici e geopolitici autonomo. Tutto ciò ha molti risvolti inquietanti: le istituzioni internazionali orientate a un cosmopolitismo pacifista e l’ideologia wilsoniana che le avevano a lungo ispirate sono in forte crisi e ciò porta a rimettere in gioco il pericolo della guerra; esplicito da parte di molti despoti a capo di queste realtà (Putin, Erdogan, gli ayatollah iraniani, l’induismo estremista che ora domina in India, ma anche in Europa un personaggio come Orban) è il rigetto della democrazia liberale, che pure, negli stati occidentali che l’hanno creata, è fortemente regredita a un rigido e plutocratico elitismo. Non è ovvio che questa complessa situazione esiga di nuovo quella ricognizione del proprio passato, quella intelligenza preveggente del proprio futuro, quell’esame approfondito del senso della propria cultura e della propria civiltà in cui dicevo prima consistere la storia? Se questo ripresentarsi della storia pare essere un dato di fatto incontestabile, sulle sue modalità si affollano le domande, i dubbi e molti punti ancora oscuri: poiché non è univoco né innocente il concetto di storia che ci consegna la tradizione occidentale (è bene dirlo ed esserne subito ben consapevoli: ci muoviamo, con questo concetto e con queste problematica, in un territorio che, nel bene e nel male, con le sue grandezze e con i suoi orrori, è squisitamente occidentale). Per orientarci un po’, sarà bene rivolgerci un po’, per l’appunto, alla storia.

2. È fra la fine del Settecento e il primo Ottocento che si foggia in modo definitivo il concetto di storia occidentale, che né i Greci né il nostro Rinascimento (che pure ne costituisce la premessa e l’inaugurazione) avevano elaborato. Esso è figlio di alcune grandi rotture e lacerazioni, la rivoluzione industriale, la rivoluzione francese - come se proprio in questi momenti di massima discontinuità si fosse imposto il problema del rapporto col passato: la consapevolezza che gli uomini stavano foggiando il loro destino, invece di essere sotto il suo giogo (attenzione: questa del riprendere in mano il proprio destino è un’altra posta importante del concetto di storia!) ha spinto a interrogarsi sul loro passato; nel momento in cui si apriva il futuro, in cui ci si schiacciava pericolosamente su di esso (come ha insegnato Koselleck), l’esigenza di confrontarsi con la tradizione è stata quanto mai forte; e ciò è tanto vero che il XIX secolo è stato tanto il secolo delle rivoluzioni quanto quello della storia. A sottolineare questo paradosso per cui il momento della rivoluzione, della maggior discontinuità (che in Francia, come si sa, significò un gesto simbolico come la distruzione delle tombe reali di Saint-Denis che custodivano la tradizione di una monarchia millenaria) è insieme un momento profondo di continuità (della difficoltà e paradossalità in cui ci spinge la concettualizzazione della storia avevo già avvertito il lettore) fu, in un suo celebre passaggio, un ancor più celebre rivoluzionario, Karl Marx; si tratta dell’inizio del 18 brumaio di Luigi Bonaparte che recita così:
Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. Caussidière invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la Montagna del 1848‐1851 invece della Montagna del 1793‐1795, il nipote invece dello zio. È la stessa caricatura nelle circostanze che accompagnano la seconda edizione del 18 brumaio! Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch'essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d'ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia. Così Lutero si travestì da apostolo Paolo; la rivoluzione del 1789‐1814 indossò successivamente i panni della Repubblica romana e dell'Impero romano; e la rivoluzione del 1848 non seppe fare di meglio che la parodia, ora del 1789, ora della tradizione rivoluzionaria del 1793‐1795. (Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, tr. it. Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 43-45).
Dunque, proprio nei momenti rivoluzionari non compare un assolutamente nuovo: contro il mito della rottura radicale, Marx ci dice che gli uomini sono addirittura ossessionati dal loro passato, e la terminologia che impiega non lascia adito a dubbi, come dimostra il passaggio “proprio quando sembra ch'essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito” ecc., che in tedesco suona: “sich und die Dingen umzuwälzen, noch nicht Dawegesenes zu schaffen”, cioè, alla lettera: “rivoltare se stessi e le cose, creare il non ancora stato”. Marx ci sta dicendo che ci sono momenti in cui gli uomini nel trasformare il mondo trasformano se stessi e viceversa (la storia è inestricabile nesso di rapporto soggetto e natura e di intersoggettività) e per designare questa attività usa il termine “schaffen”, che è indica l’atto per cui il lavoratore e l’artista conferiscono forma all’oggetto: dunque, Marx sta connettendo in modo essenziale storia, tradizione, morfologia e genesi. Certo, il suo discorso non si mantiene a questa altezza: subito dopo, egli formula l’idea secondo la quale questa ossessione del passato sarebbe il limite delle rivoluzioni borghesi, dovuto alla necessità, per esse, di dissimulare a se stesse “nelle austere tradizioni classiche della repubblica romana [...] il contenuto grettamente borghese delle loro lotte”: la rivoluzione proletaria si libererà invece da ogni vincolo del passato e creerà in un regime di libertà assoluta. È questo del resto il modello che prevale nella maggior parte dell'opera di Marx: quello della celebre (e famigerata) Prefazione del 1859, in cui la storia è vista come una successione di formazioni sociali che, in dipendenza dallo sviluppo delle forze produttive materiali, si succedono necessariamente: si passa dal modo di produzione asiatico, a quello antico, a quello feudale e a quello borghese, in cui gli uomini sono ormai in grado di por fine all’antagonismo di classe: il passaggio al comunismo significa allora il passaggio dalla preistoria alla storia autentica, quella in cui gli uomini pervengono a un dominio integrale sia della natura che della storia. Secondo questo secondo modello, Marx fondamentalmente concepisce il corso storico come una linea teleologicamente orientata verso la tappa finale, in cui il passato sarà abolito: questa seconda idea di storia ne contiene insomma virtualmente la negazione; in essa è già incistato il tema novecentesco della fine della storia. Arriviamo dunque a questa prima conclusione: la stessa situazione storica e culturale (Rivoluzione francese, rivoluzione industriale) che ha creato il concetto di storia gli ha conferito una forma teleologica e necessitante, per cui il passato e il presente esistono solo in vista di una tappa futura, che li annullerà, secondo uno schema tipicamente millenaristico; inutile dire che questa è una visione intrinsecamente dispotica, che vede tutto il corso storico come una serie di tappe orientate verso la civiltà bianca ed europea e che ha rappresentato quindi uno strumento di violenza dell’Occidente su tutto il resto del mondo. Su questo paradosso del copresentarsi, nello stesso periodo e in molti autori, di due concetti di storia fra loro inconciliabili dovremo nel seguito soffermarci ancora a lungo (continua).


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