Merleau-Ponty e la storia. Il protogeometra e la madeleine: strutture, ricorsi e ancora fantasmi
Manlio Iofrida
10.08.2021

La posizione finale di Merleau-Ponty sulla storia e la sua lettura dell’eredità di Husserl su quell’argomento non sono separabili, di nuovo, dalle vicende della rivoluzione sovietica; se, fra le due guerre, essa aveva aperto al nostro filosofo e al mondo intero delle prospettive nuove, la sua crisi, che per Merleau-Ponty fu chiara già pochi anni dopo la fine della guerra, fu altrettanto decisiva per conferire una nuova curvatura al concetto di storia.

Quando, già nei tardi anni quaranta e poi nei primi anni cinquanta, le notizie dei campi di concentramento sovietico cominciarono a filtrare inequivocabilmente in Occidente; quando la morsa del totalitarismo staliniano si estese dall’URSS alla parte di Europa che era caduta nella sua sfera di influenza, il precario equilibrio che in Merleau-Ponty si era instaurato fra il tema della natura e della percezione e il marxismo si ruppe: rapidamente il filosofo mise a fuoco quanto la visione della storia del filosofo di Treviri fosse una continuazione di quella occidentale e borghese, sia per quanto riguardava il produttivismo che per l’adesione a una concezione lineare e semplicistica del progresso.

Allora Merleau-Ponty sentì l’esigenza di approfondire ulteriormente la sua riflessione facendo i conti con gli apporti della linguistica, della psicoanalisi e e dell’antropologia, cioè col nascente strutturalismo. Saussure, Freud, Mauss, Lacan e Lévi-Strauss - con questi due ultimi egli strinse un forte sodalizio personale, oltre che intellettuale - furono il punto di riferimento per una visione spaziale della storia. Questa sostituiva al futuro, la cui idea, teleologicamente orientata, svaluta e immiserisce il presente, con una dimensione di a-venire che era incistata, radicata nel presente: un’idea di barbaro e di selvaggio, che non è da confondere con l’originario e che rinnovava insieme Vico, Schelling e Lévi-Strauss.

Cos’ erano le strutture alla luce della crisi dell’idea di rivoluzione? Un allievo originale, ma nei punti sostanziali fedele a Merleau-Ponty come Michel Foucault ebbe a dire alcuni anni dopo che la presa del Palazzo d’Inverno si era rivelata una manovra controproducente: non solo per i suoi effetti totalitari, ma perché i gangli essenziali del potere erano rimasti intatti; la società socialista si era rivelata essere sostanzialmente ancora una società borghese, per giunta con non poche libertà in meno. Cosa significava questo dal punto di vista del concetto di storia?

Significava che in esso emergevano - oltre e contro i linearismi e i progressismi della visione borghese settecentesca - dei nodi di densità, di ostinazione, di permanenza che era illusorio pensare di abolire con un’azione diretta e frontale: essi piuttosto potevano essere aggirati con un’azione laterale e indiretta (Jacques Derrida, anni dopo, avrebbe parlato di decostruzione).

Erano questi nodi, questi ispessimenti e queste rugosità (Labriola), questi meccanismi ripetitivi che marcavano inevitabilmente la differenza i punti su cui le ricerche strutturalistiche che ho citato prima avrebbero trasformato l’idea borghese e occidentale di storia: per un paradosso, le ciclicità e i ricorsi di Vico, che siamo erroneamente abituati a associare allo storicismo di Dilthey e di Croce, non erano quindi alternativi a una visione strutturalistica che Merleau-Ponty avrebbe anche caratterizzato, in dei corsi strategici, col termine di passività e collegato a una riflessione sull’istituzione: la storia non è solo il facere, l’aspetto attivo e culturale della natura umana, l’espressione della sua libertà, ma ha dei nodi di passività, che la radicano profondamente nella natura.

Ma questa archeologia del nostro facere è ciò che garantisce anche la nostra attività, creatività, il nostro sporgere verso l’a-venire: lo zoccolo archeologico non è un incatenamento a un destino di ripetizione sul modello di Sisifo, è la risorsa per produrre il nuovo: è ripetendolo, riaffondando in esso che gli uomini sono capaci di dar luogo a quei grandi momenti culturali che sono le rinascite - la periodica riattivazione, in forme nuove, dello zoccolo, la forma laica, parziale, e non metafisica che una storia spaziale e strutturale riesce a dare a un’idea di apocalissi, redenzione e rivoluzione. Insomma, quello che sto sostenendo è che l’aspetto profondo dello strutturalismo era dato dal fatto che (come ho scritto nella puntata precedente) a monte dell’azione umana, si riscopriva una realtà naturale selvaggia che non era un originario, ma un sempre nuovo, un assoluto non umano, un mondo materiale che era assai più antico dell’uomo e radicalmente estraneo alle sue finalità.

Tutto questo era espresso da Merleau-Ponty con una riflessione sul concetto di Stiftung o istituzione. Dobbiamo, per chiarirne tutte le implicazioni dal punto di vista di un nuovo concetto di storia, riportare sulla scena il nostro protogeometra e vederne l’azione dal punto di vista del concetto di teleologia, così strategico e centrale per una riflessione sulla storia. Allorché inventa, per la prima volta, la geometria, il nostro personaggio fa un’operazione che è radicalmente avversa alla teleologia come l’avevano concepita i filosofi del settecento, e segnatamente Condorcet: non avanza verso un futuro che assorbe in sé passato e presente; al contrario, la sua è una teleologia rovesciata, che guarda all’indietro: il suo futuro si produce retrocedendo nel passato, producendo un ricorso o una ripetizione. Cerchiamo di spiegare perché.

L’invenzione di una qualunque verità geometrica è la produzione di una verità che si proietta all’indietro, su tutte le agrimensure precedenti: non è l’agrimensura degli egiziani a togliersi e inverarsi nella geometria dei Greci, sono Euclide e Archimede a trasformare ex post in verità quasi eterne i calcoli pratici dei primi: è il presente che trasforma e redime (sempre parzialmente e sempre provvisoriamente: poiché la razionalità non abolisce mai la contingenza) il passato, proiettandolo verso il futuro; così ogni verità si raddoppia in una ripetizione, si fa ciclica: è il ricorso vichiano che si rivela nel cuore della stessa verità scientifica, e la storia non è uno svolgimento lineare dal passato al futuro, come lo srotolarsi di un nastro precostituito: è il possibile avvento del nuovo nel presente che è capace di trasformare anche il passato: nonché essere posseduti da un fine che ci sovrasta e ci trascina, siamo attivamente partecipi di un processo che, per essere a noi irriducibile e da noi completamente controllabile, non potrebbe d’altra parte far a meno di noi. Non un nastro che si srotola, ma un cerchio che si riavvolge al suo principio, costantemente rinnovandolo, una freccia che si chiude in un circolo è il diagramma della storia.

Questa struttura di ripetizione e di ricorso , o, se volete, questa razionalità batesoniana di un feedback a ritroso, è del resto quella che Proust (come Merleau-Ponty ben sapeva) scopre alla fine della sua Recherche: è solo quando si ripete che l’esperienza della Madeleine è autentica e il tempo autentico è sempre e solo quello ritrovato.

Tutta la struttura classica della temporalità ( e a fortiori tutta l’idea di storia) ne risulta completamente trasformata: non c’è una successione di passato, presente e futuro con una direzione unica, ma ci sono un futuro che si ripercuote all’indietro e un passato che si proietta in un a-venire , e questi due momenti sono un momento solo, che è come dire che tutto ciò si radica nel presente: è nel presente che avviene questo rinnovarsi-ripetersi del passato, è dal presente che parte la proiezione innovante e trasformante il futuro; dal punto di vista della teleologia, più che dire che essa viene negata, bisogna dire che essa è postulata come contemporaneamente retrograda e progressiva.

Questa struttura così paradossale (ma conforme ai paradossi cui la ragione postclassica, quella, successiva alla “crisi della ragione”, delle geometrie non euclidee, di Einstein e di Bohr, ci ha abituato) diventa per il lettore molto più comprensibile ricorrendo a un esempio concreto di ricorso storico che a noi italiani è particolarmente familiare: il Rinascimento.

Quest’ultimo è, per un suo aspetto essenziale, una nuova scoperta del senso del classico che ha luogo fra il XV e il XVI secolo: la classicità che rinnova la cultura italiana e poi europea e mondiale a partire da quei secoli è qualcosa di nuovo e irriducibile al passato (come la geometria greca inventata dal protogeometra lo era rispetto all’agrimensura egiziana); ma tale classicità si ripercuote all’indietro, fa riemergere un passato di molti secoli precedenti e ne è anche una ripetizione - ripetizione differente, ma chi potrebbe negare che si sia trattato di una ripetizione?

Il XV e il XVI secolo si proiettano all’indietro nella classicità, questa rivive a sua volta proiettandosi nell’a-venire: questa struttura ciclica non è risolvibile, questi nodi di densità e di costanza sono la radice più profonda della natura e della storia insieme. E il futuro, o meglio l’a-venire non sta in una dimensione di assenza, ma è questo incrociarsi di due esplosioni contemporanee, del presente nel passato, del passato nel presente.

E con questo movimento della storia come farsi presente, come esplodere nel presente, ritroviamo quella gran processione di fantasmi da cui eravamo partiti : quando Marx, come abbiamo visto nella nostra prima puntata, parlava del ritorno nella rivoluzione francese dei grandi personaggi della storia romana il suo discorso si faceva così profondo perché toccava questo aspetto della storia, questo suo essere una grandissima conversazione a distanza - a distanze enormi di spazio e di tempo.

Ci rimangono da vedere i nessi di questa visione di una storia come spazio-tempo con la struttura dell’intersoggettività e della società e con l’idea dell’azione politica, della prassi: lo faremo nella nostra puntata conclusiva.