27.02.2021
Il 'mito d'oggi' del turismo
Melania Moltelo

Negli anni Cinquanta Roland Barthes dedica una variegata raccolta di saggi ai “miti di oggi”, attraversata dal fil rouge della riconduzione del mito a tutto ciò che subisce o può subire le leggi di un discorso: la “parola mitica” si costruisce attraverso una molteplicità di supporti e di sintesi visive, testuali, verbali. Una mostra, la nuova Citroën, un film, l’astrologia abitano l’arcipelago della contemporaneità a cui si riferisce Barthes per tracciare una “cartografia” del mito dalle voci plurime. La caratteristica fondante della mitologia è pur sempre il processo di “naturalizzazione” della storia, la sottile formazione di una “crosta” ideologica che riduce ogni aspetto a un dato necessario da subire, appianando le contraddizioni nel cui svelamento è ancora possibile rilevare l’alito e l’anelito del nuovo.

La borghesia è interessata da un “fenomeno di e-nominazione”: cioè, “la borghesia si definisce come la classe sociale che non vuole essere nominata”. Le norme borghesi sono vissute come leggi di statuto naturale: da qui il loro carattere mitico; l’uomo borghese si lascia assorbire dall’”uomo universale” ed elargisce i suoi “valori” mascherandoli da “fatti”. La perfettibilità del mondo è rovesciata in una realtà immutabile, la curiosità del “perché” infantile è mortificata dalla risposta tautologica: “è così perché è così”. Tra le “forme retoriche” del linguaggio mitico, che sfinisce lo slancio rivoluzionario dell’”agire le cose” per trasformarle, ci sono la “privazione di storia” e “l’identificazione”: nel mito la storia evapora, “è come una domestica ideale: prepara, porta, dispone, il padrone arriva e lei scompare silenziosamente”; l’altro è ignorato e negato, oppure risucchiato in una coercizione identitaria.

Il soffocamento del “caso” come possibilità di apertura della realtà all’avventura e alla disposizione al ri-modellamento inventivo e la cancellazione dell’altro nelle fissazioni categoriche trovano terreno fertile nella logica dell’industria turistica a cui Barthes dedica, anche per vie traverse, la sua attenzione. Per la “Guida Blu”, che dà il nome a uno dei saggi della raccolta, “gli uomini esistono solo come tipi”. La Spagna della Guida Blu sembra da sempre “fatta per il turismo”, la selezione dei monumenti sopprime insieme la verità del luogo e degli uomini in un edulcorato scenario in cui “gli uomini esistono solo nei treni, dove popolano una terza classe promiscua”, esistono solo come figure di “introduzione” ai protagonisti “leggendari”: questo immaginario topologico/tipologico occulta lo spettacolo reale delle condizioni di vita, delle gerarchie, delle classi sociali.

Così, nel documentario sull’Oriente intitolato “Continente perduto”, l’esotico rivela una complicità con il mito: l’estraneo è privato della sua storia, ridotto a “marionetta” o a “puro riflesso dell’Occidente”. L’Oriente è convenzionalmente incastrato in una cartolina di colori in cui i fatti di cultura non sono rapportati a orizzonti storici, ma alla “neutralità” delle forme cosmiche: stagioni, morti, rivelazioni – tutta una parodia di un “Occidente spiritualista”.

Anche nel più recente testo del sociologo Rodolphe Christin, Turismo di massa e usura del mondo, è analizzata la normalizzazione dell’avventura, la coincidenza tra l’apparente libertà di movimento e le direttive dell’industria culturale/turistica. Il turismo, innanzitutto, si costruisce in un ammasso di guide che esaltano i caratteri del luogo e ne rafforzano la facciata identitaria, spesso ridicolizzando pittorescamente personaggi elettivi o tenendo in vita tradizioni secolari con un gusto piuttosto gretto e a-critico. La frenesia della mobilità dell’oggi, la “dromomania”, è la mobilità effettiva o il contenimento di essa in un paradigma dominante e in uno spazio aprioristicamente allestito? L’idea di mobilità generalizzata lascia spesso inalterati i processi di marginalizzazione economica, “di cui i dimenticati delle vacanze costituiscono un esempio lampante” (Bourdeau). L’”evasione” è venduta low cost ai risparmiatori, ai veneratori di un’estate sempre-attesa e grigia come la noia che si consuma avidamente e ingannevolmente in avventure “in serie” e in posture ispirate al cinema del capitale.

È evidente che solo la promozione di una dialettica tra presente e passato e l’idea di un viaggio nella storia – e non della storia in un pacchetto preconfezionato – possono favorire, per pensarla con Walter Benjamin, un “riscatto” dalle oppressioni, ricordando che la lettura del “mito moderno” del filosofo berlinese non è poi così distante dalle intuizioni di Roland Barthes sulla “naturalizzazione del dato storico”. Sono proprio i “dimenticati delle vacanze”, con una punta di imbarazzo, a trattenere l’ultimo impeto sovversivo: passeggiano in “città vuote” nella calura estiva dove i paesaggi si svelano cumuli di macerie. Se il turismo “monumentalizzato” si ciba della filosofia storicista della storia, le macerie marcano la rottura che svela una historia abdscondita in cui il passato non è più congelato in una “immagine eterna”, ma risulta fragile e indigente – chiede il suo riscatto nel rifiuto delle realtà ufficiali della città e nello scontro con le sue viuzze buie, con le sue popolazioni trascurate: emarginati, clochards, freaks, goffi.

Se Rodolphe Christin, nelle ultime pagine del suo libro, richiama l’aspirazione a un “uomo universale”, si può piuttosto controbattere che sia proprio la rottura di questo principio, che quasi sempre mistifica l’emancipazione radicale nella “moderazione” di un presunto rispecchiamento cosmico della classe dominante, a offrire una risposta più appropriata (e aperta, ancora sempre); ne sono testimonianza le fotografie di Atget che risucchiano “tutta l’aura” di Parigi in una sparizione dell’uomo.

Ci sono luoghi altri, così lontani e così vicini ai rifugi dell’umanità, da sembrarci inesistenti: in questi luoghi in cui si accumulano rovine, resti di un umanesimo putrefatto e in cui la “morte apparente” spinge la vita fino alla sua irriducibilità/indicibilità, si può scovare – con un verso di Paul Celan – “ciò che ancora con la lingua ride”. Filamenti di sole ricoprono gli occhi e li dischiudono sugli aeroporti del fantastico (da sempre intrecciato all’ordinario) che destinano al non-visto, senza mai dovere “passare per la cassa”. Non posso che riportare in chiusura una frase di Samuel Beckett, “cara” a tanti, “non viaggiavamo per il piacere di viaggiare, che io sappia; siamo stupidi, ma non fino a questo punto”.