Il mito del “genio”. La critica dell’arte di Linda Nochlin
Melania Moltelo

08.10.2021

Perché non ci sono state grandi artiste?”, come spiega Linda Nochlin, è una domanda ricorrente, una domanda che fa “scuotere la testa agli uomini con aria di sufficienza e digrignare i denti alle donne per l’umiliazione”.

La prima reazione delle femministe è quella di “abboccare inghiottendo l’esca con tutto l’amo”, cioè di tentare di rispondere alla domanda così come viene posta: si cerca di riportare alla luce esperienze obliate dai nomi indiscussi della storia dell’arte e di orientare l’attenzione sulle artiste sottovalutate o poco considerate dalla storiografia ufficiale.

Si tratta, invece, di accogliere la domanda operando una de-costruzione della concezione dominante dell’arte, quella che intende quest’ultima come l’espressione diretta dell’esperienza emotiva di un individuo; si tratta, cioè, di smantellare l’idea borghese del “genio” artistico come forza astorica e misteriosa che muove l’atto creativo in una emarginazione e una autoreferenzialità che lo sottraggono alla concretezza delle situazioni economico-sociali.

La realizzazione di un’opera consiste, in realtà, nella formazione di un linguaggio sviluppato attraverso lo studio e un apprendistato e, in questo senso, va da sé che la situazione sociale è stata a lungo oppressiva e ostacolante per chi non ha avuto la fortuna di nascere “maschio di razza bianca, preferibilmente dal ceto medio in su”.

La creazione non presuppone una disposizione innata, come vuole la deriva romantica, ma piuttosto un esercizio, un lavoro: non è secondario che alle donne sia stato prevalentemente inaccessibile l’esercizio con la riproduzione del nudo artistico, che ha a lungo costituito una tappa primaria nella formazione degli artisti più rinomati.

Ancora una volta non si tratta di rivendicazioni che lasciano immutato il vocabolario estetico “ufficiale” e standardizzato, ma di svelare l’inganno dell’atto creativo come svincolato dalle modalità strutturali del suo essere sociale. L’ispirazione scaturisce da una sospensione del sé narcisistico, e non da una sua esasperazione, come vuole lo stereotipo dell’inventore, tormentato e disadattato, che si aliena dal mondo reale per attingere da un “mondo ideale”.

Va sottolineata l’importanza dei presupposti pubblici rispetto a quelli individuali e privati nell’analisi delle dinamiche relative al “successo artistico” e alle narrazioni storiche.

L’arte non è l’attività libera e indipendente di un soggetto “superdotato”, ma è l’esito di una precisa situazione sociale. È la subalternanza delle donne nella società, da intendere come difficoltà materiale, ad avere contribuito alla loro scarsa presenza tra le personalità associate al patrimonio artistico; per questo il riferimento a un metro di giudizio prevalentemente maschile nella elezione delle opere degne di memoria è una risposta parziale alla domanda di partenza.

Non si tratta di rivendicare una “genialità” compromessa dalla disattenzione, ma di far emergere le modalità di ostacolo all’espressione creativa generate dall’impossibilità di prendere parte attiva alla coltivazione del lavoro tecnico-artistico.

La categoria di “genio” ha una lunga storia che coincide con quella di una mitologia dell’arte, che Walter Benjamin ha accuratamente criticato e che relega quest’ultima in una bolla protettiva consacrandone la presunta “innocenza” rispetto ai meccanismi di produzione dell’ingiustizia sociale.

L’arte resta innocua finché viene occultata la sua partecipazione politica nel senso di una progressione o di una immobilizzazione della situazione extra-artistica. In L’autore come produttore, conferenza sull’inserimento della produzione artistica tra le produzioni materiali, il filosofo berlinese afferma che “la lotta rivoluzionaria non si svolge tra il capitalismo e lo spirito, ma tra il capitalismo e il proletariato”.

Il momento distruttivo, di rottura delle croste ideologiche generate dal dominio di classe – e dalle strutture patriarcali -, va di pari passo con la proposta di categorie alternative.

Solo un approccio autenticamente critico può contribuire alla creazione di nuove istituzioni in cui sia negata la concezione elitaria del talento, come forza spirituale e incontaminata, e la “vera grandezza” sia una sfida finalmente aperta a tutti coloro che hanno il coraggio di “osare l’indispensabile salto nell’ignoto”.