Il Manifesto dell’Islam italiano, verso un’identità altra
Gianluca Viola

26.05.2024

Il 10 Aprile scorso, un giorno quasi anonimo di incerta primavera, chi si trovava a Napoli ha potuto assistere ad un evento particolare, apparentemente lontano dalla vita quotidiana della città partenopea: migliaia di persone di fede islamica hanno affollato due fra le principali piazze – la Piazza Garibaldi, adiacente alla stazione ferroviaria e la Piazza del Plebiscito, salotto buono con vista sul mare -, riuniti in preghiera comune per la fine del mese di Ramadan e per festeggiare la “rottura del digiuno” - il giorno di Eid al-Fitr e il conseguente inizio del mese di Shawwal, in cui tradizionalmente viene situato il matrimonio del profeta Muhammad con A’isha.

Questo evento è stato preceduto da una polemica che, sorprendentemente, malgrado la dimensione locale cui era circoscritta, ha finito per suscitare l’interesse nazionale: a Pioltello, nella città metropolitana di Milano, il consiglio scolastico dell’istituto Iqbal Masihall ha deciso di concedere a tutti gli studenti iscritti la possibilità di fare vacanza nel giorno della fine del Ramadan, vista l’alta incidenza di ragazzi e ragazze musulmane nelle classi. La notizia, così presentata, non dovrebbe di per sé dare adito a chissà quali dibattiti: ciononostante, molti giornali e programmi televisivi, spesso di area conservatrice – qualunque cosa questo significhi -, hanno dato ampio spazio a parlamentari e “intellettuali” che hanno voluto vedere in questo avvenimento un segno indiscutibile di una “islamizzazione” dell’Italia e della «sottomissione» del nostro paese alla cultura islamica.

D’altro lato, parlamentari e “intellettuali” con posizioni politiche progressiste hanno rilanciato e, sfidando questa incomprensibile indignazione, hanno proposto di rendere la “festa per la rottura del digiuno” una festività nazionale – una proposta probabilmente irricevibile; solo in pochi, davanti alle scene di Napoli, hanno avuto l’ardire di proporre qualcosa di sensato: la costruzione di una moschea a Napoli, progetto doveroso vista la presenza di ormai qualche decennio in quella città di una vasta comunità islamica, alla quale deve essere garantito un luogo dove espletare la propria libertà di culto – inutile dire che anche questa proposta, come le molti similari in altre città italiane, viene accolta secondo un atteggiamento di diffidenza, se non di aperta ostilità. Questo piccolo panorama ci dà un indizio su quale sia la modalità pubblica di interfacciarsi con la questione islamica in Italia, ovvero secondo quel meccanismo definito da Francesca Bocca-Aldaqre, nel suo Manifesto dell’Islam italiano, «la chiacchiera».

In questo manifesto, la studiosa – musulmana italiana già autrice di un interessante volume (F. Bocca-Aldaqre, Nietzsche in Paradiso. Vite parallele tra Islam e Occidente, Mimesis, 2020) sugli incontri intellettuali, filosofici e letterari fra il pensiero occidentale e l’Islam – cerca di superare l’impasse degli sterili dibattiti di cui sopra, nel tentativo di «immaginare un orizzonte culturale comune, uno scambio fruttuoso che formi un Islam profondamente appartenente alla cultura italiana, in grado non soltanto di sopravvivere, ma di restituire e reciprocare, di diventare interlocutore per l’italianità che viene» (F. Bocca-Aldaqre, Manifesto dell’Islam italiano, Mimesis, 2024, pp. 14-15). Molti ostacoli, in effetti, si frappongono fra l’importanza di questo tentativo e la sua effettiva possibilità di riuscita: da un lato, non c’è ad oggi, ancora, in Italia – malgrado alcune eccezioni – una letteratura alla portata di tutti intorno alla storia dell’Islam, alla presenza dell’Islam nel territorio italiano, e, in generale, rispetto alla cultura islamica, la quale sembra ridotta al binomio tradizionalismo-fondamentalismo e vissuta, essenzialmente, come corpo estraneo all’interno della società; d’altro lato, la presenza dei musulmani in Italia oggi è certo considerevole – si arriva a tre milioni circa – ma molto frastagliata, formata tanto dai convertiti – i quali per secoli sono stati definiti “rinnegati” -, quanto da immigrati di diversa provenienza – Marocco, Albania, Tunisia, Senegal, Pakistan etc -, e, infine, dalle cosiddette “seconde generazioni”, ragazze e ragazzi italiani – anche se, spesso, il loro passaporto dice diversamente – di fede islamica. Per quest’ultimo gruppo, il problema identitario risulta cogente: in un crescente clima di sfiducia, tinto di islamofobia e da appelli ad una “integrazione” che vorrebbe dire rinuncia alla propria specificità culturale, come essere musulmani italiani, sia musulmani sia italiani?

È qui che va situato il merito maggiore del Manifesto: la discussione intorno ad un’identità islamica italiana non riguarda unicamente la variazione, la differenza interna ad un’identità islamica possibile su un territorio determinato, quanto soprattutto quella interna all’identità italiana stessa, nel senso che «non soltanto esiste un’identità islamica italiana, ma l’identità italiana in quanto tale ha bisogno, per definirsi, di tenere conto dell’Islam italiano» (Ivi., p. 59).

Bisogna fare alcune precisazioni: nel dibattito pubblico, specialmente quello tenuto dalle destre, si introduce spesso l’espressione fumosa «identità italiana», come se essa fosse definita una volta per tutte e rispondesse a precise conformazioni culturali condivise da un lato all’altro dello stivale; è il trucco retorico di un certo nazionalismo decadente, il quale piuttosto che confrontarsi con la complessità, ama semplificare e costruire “comunità immaginarie” di carattere spesso escludente: in genere, i richiami all’identità italiana favoriscono la polarizzazione fra un “Noi” non problematizzato e un “Loro” posto come minaccia della “nostra” presunta unità. In realtà, fra i paesi dell’Europa occidentale, l’Italia ha una sua particolarità: malgrado le notevoli differenze interne – socio-economiche e culturali fra il Nord sviluppato verso l’Europa e il Mezzogiorno storicamente arretrato e povero -, non esistono – se si escludono le sempre più flebili rivendicazioni del Südtirol e le ormai scomparse minacce di secessione padana – questioni territoriali decisive, assai presenti invece in Spagna, Francia, Gran Bretagna e così via; questo è forse anche dovuto alla relativa giovinezza della nazione italica, se confrontata ai grandi stati nazionali europei. Malgrado ciò, l’identità italiana non è mai stata determinata – né determinabile – con precisione: essa è posticcia, asservita alle rivendicazioni politiche nella definizione apparentemente immutabile che ne danno i conservatori e i cosiddetti patrioti; allo stesso modo, l’instabilità della determinazione non implica necessariamente lo sradicamento totalizzante dei cultori del «nomadismo identitario», quanto piuttosto è foriera di una chance irrinunciabile, quella che vorrebbe mantenere la “radice” - l’italianità come insieme di modi di vivere sviluppati all’interno del territorio che va da Aosta a Palermo – senza sacralizzarla, quanto piuttosto considerandola sempre aperta al “rizoma”, originariamente in grado di realizzare inedite connessioni le quali, piuttosto che identificarla una volta per tutte, la mantengono nell’apertura e nella soggezione al divenire.

Perciò, il discorso proposto da Bocca-Aldaqre ha un suo valore irrinunciabile: non solo l’Islam non è affatto estraneo all’ “identità italiana” - né storicamente, se si prende in considerazione la dominazione araba in Sicilia e Calabria, né pragmaticamente, dal momento che «per la prima volta, oggi l’Islam è parte della quotidianità – pacifica, lavorativa, domestica, commerciale – degli italiani» (Ivi., p. 140) -, ma può essere uno stimolo per entrambe le identità – quella islamica e quella italiana – per produrre, tramite «atti creativi, atti di pura vita» (Ivi., p. 107), connessioni assolutamente necessarie nel nuovo contesto del mondo globale; in questo senso, la posizione anche culturalmente strategica dell’Italia sul Mediterraneo – con le molteplici prospettive aperte su una possibile nuova cultura mediterranea, opposta alla dominanza atlantica degli ultimi secoli, come interruzione della modernità, alterità nell’identità stessa, secondo le analisi di Iain Chambers, Franco Cassano, Serge Latouche e molti altri – si presta facilmente a quest’obiettivo; ironia della politica, sono proprio gli auto-proclamati patrioti e i sedicenti sovranisti, un tempo avvelenati contro le élite mitteleuropee di Bruxelles, coloro che dovrebbero, più di ogni altro, cogliere questa possibilità, nel tentativo di segnare una vera differenza italiana sulla questione islamica.

Dunque, questo Manifesto dell’Islam italiano non parla solo alla umma, ma a chiunque abbia a cuore i temi della coesistenza e della ricchezza culturale in una patria futura, in una patria spogliata dalla sua dimensione sciovinista e fanatica: una patria sempre a venire, alla quale oggi, finalmente, l’Islam può dare un notevole contributo, tenendo ben presente che «L’Islam italiano di oggi non è né l’appendice di un passato di imperi, di mercanti e di pirati, né la riproducibilità del feticcio dell’immigrazione. I musulmani in Italia non vivono in un passatismo ideale, non sognano rivoluzioni e non hanno nostalgie di Paesi lontani dal nostro. Vivono, immaginano, sognano qui» (Ivi., p. 140). Vivere, immaginare, sognare: è quel che ci mette in comune pur senza accomunarci, una «condivisione che precede ogni divisione», come scrisse Giorgio Agamben dell’amicizia; il libro di Francesca Bocca-Aldaqre è il primo tassello di una pratica feconda di amicizia fra islamicità ed italianità: un’occasione inedita, quanto mai necessaria, per approfondire la domanda chi siamo?