26.03.2021
Il luogo delle immagini
Enrico Camprini
Albrecht Dürer, Il disegnatore della donna coricata, 1525 circa.

Il fatto che quella in cui viviamo si possa definire come epoca delle immagini è di per sé difficilmente discutibile, certamente vista l’abbondanza di studi in merito ma soprattutto in ragione – molto più banalmente – di consuetudini e attitudini pratiche. Un confronto serrato con la dimensione del visivo e dell’iconico permea il nostro vivere quotidiano in molteplici e potenzialmente infiniti modi, a partire dalla fruizione stessa di queste pagine, se le si pensa per ciò che effettivamente sono, cioè un contenuto riconoscibile per caratteristiche “figurative” inserito in un’interfaccia, uno schermo, insieme a una miriade di altri contenuti altrettanto figurativamente connotati, come accade quando ci troviamo a scorrere l’home page di un sito e ancora di più di un social network.

Che questa constatazione possa apparire paradossale è indubbio, ma non è che un’estrema conseguenza di un problema tutt’altro che recente. Infatti, l’emergere primonovecentesco della fotografia e del cinema come media di massa pose le basi di quella che già all’epoca, poteva essere definita come una iperstimolazione visiva: penso ai timori che negli anni 20 Sigfried Kracauer nutriva verso un eccessivo consumo di immagini e sui rischi che esso poteva comportare a livello cognitivo, timori che – evocando deficit di attenzione e memoria – non possiamo non considerare in qualche modo premonitori (Cfr. S. Kracauer, La massa come ornamento, Napoli, Prismi, 1982).

Il problema delle immagini per come lo conosciamo oggi – nei termini di proliferazione massiva e tangibile influenza sulla sfera pubblica – esplode tuttavia nel nostro secolo, che si apre con due eventi che simbolicamente ci proiettano nella nuova epoca. L’attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001 e la distruzione dei Buddha di Bamiyan dello stesso anno da parte dei talebani; entrambi gesti iconoclastici (il secondo nella sua versione più classica, quella dello scambio tra corpo e immagine), non assumono rilevanza solo per i fatti in sé ma anche, e soprattutto, per il loro portato iconico. L’impatto e la significatività di tali eventi si intensifica in maniera direttamente proporzionale alla loro messa in immagine e alla sua diffusione capillare.

Non solo perché – torniamo di nuovo all’esperienza quotidiana – tutti possono facilmente ricordare, per esempio, dove fossero e cosa stessero facendo l’11 settembre 2001, ma piuttosto perché da quel momento in avanti immagini come quelle delle due distruzioni cessano di essere mera documentazione, per diventare elementi attivi, performativi e produttivi di effetti sulla sfera pubblica. È il caso di ciò che diversi teorici, da Mitchell, a Bredekamp, a Latour, hanno definito come «guerra delle immagini», intendendo queste come dispositivi decisivi nel contesto di dinamiche politiche e geopolitiche, strumenti paralleli per portare i conflitti su un ulteriore livello di realtà.

Non sono certo solo questi esempi – che pure rappresentano una sorta di incipit simbolico – a rendere conto dell’accelerazione dell’impatto sociale e culturale di paradigmi di ordine visivo, e di quanto l’immagine si riveli un oggetto ingombrante e pervasivo, degno di autonomia da un punto di vista teorico e, per molti versi, anche pratico. Sono gli ultimi due decenni nel loro complesso a mostrarci l’evoluzione di un’iconosfera sempre più ricca, densa e satura di impulsi e stimoli tra cui districarsi criticamente e che rendono la citata autonomia teorica un obiettivo quasi necessario, e ampiamente perseguito.

Si è parlato, in tempi ormai nemmeno recenti, di svolta iconica e pictorial turn (formule coniate da autori come Boehm e Mitchell); che si tratti di riflessioni interne al contesto della cosiddetta Bildwissenschaft tedesca o dei Visual Culture Studies di matrice anglosassone – ma negli ultimi anni ampiamente diffusi anche in Italia – è oggi consolidata l’idea che una prospettiva multidisciplinare, ma specifica, sia la via maestra per occuparsi delle questioni relative all’immagine.

In questo senso, a mio parere, orientarsi può non essere facile per due ragioni. La prima è appunto legata – penso agli studi di cultura visuale – proprio alla molteplicità di discipline coinvolte e alla difficoltà, quantomeno iniziale, che si può incontrare nell’immergersi in un campo estremamente vasto e che può a tratti apparire disorganico. La seconda, e più importante, riguarda l’oggetto stesso dell’analisi.

Se un punto di vista disciplinare può essere definito e chiarito – come fatto da Michele Cometa nel suo ultimo libro (M. Cometa, Cultura Visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2020) – resta la difficoltà di misurarsi con un oggetto teorico, l’immagine, non solo onnipresente ma soprattutto in continuo e rapido mutamento, nelle sue manifestazioni, relazioni ed effetti. Del resto, se già Kracauer individuava una saturazione dell’iconosfera un secolo fa e il tema della preminenza del visivo diventava centrale già dalla fine degli anni 90, gli sviluppi odierni – tra social network, realtà virtuali e iperstimolazioni visive quotidiane – non sono che l’evoluzione di un processo in atto e in velocissima progressione, assai poco prevedibile.

Certamente gli studi sull’immagine, al pari di forse tutte le discipline teoriche, sono simili alla famosa nottola di Minerva. Eppure, nonostante un panorama in continuo mutamento, non mancano chiavi di lettura decisive da tenere a mente e che possono farci da guida nel complesso contesto contemporaneo e, forse, anche per gli sviluppi a venire. Un contributo a mio parere fondamentale rimane quello di Hans Belting nella sua Antropologia delle immagini (trad. it., Roma, Carocci, 2011).

Pubblicato venti anni fa esatti, in quel 2001 che abbiamo eletto a punto di partenza simbolico, il testo dello storico dell’arte tedesco è tra i primi ad articolare una lettura che, da un lato, svincola il dominio dell’immagine dalla prospettiva storico-artistica, e dall’altro ne mette in chiaro la natura ad un tempo storica, relazionale e antropologica. Infatti, un chiarimento concettuale sulla natura delle immagini non deve esaurirsi nell’individuazione di una singolarità significante – quella che tradizionalmente sarebbe l’opera d’arte – quanto invece tendere a esplicitare la dinamica di una prassi. Si tratta, per Belting, di mettere in evidenza come non sia possibile problematizzare l’immagine senza considerarne l’intreccio con due poli ulteriori, quello del medium e quello del corpo.

Riconoscere questa triangolazione è importante, e lo è ancora oggi, perché ci permette di capire prima di tutto che ridurre la questione delle immagini alla loro manifestazione materiale non è sufficiente per indagarne i funzionamenti e, soprattutto, per resistere al flusso contemporaneo. Occorre chiedersi, ora più che venti anni fa, non tanto che cosa siano le immagini ma dove esse siano: in altre parole, questa la critica di Belting, se ci si sofferma, come a lungo è stato fatto, primariamente sul problema del medium si avrà certo una consapevolezza contestuale dell’immagine, che sarà tuttavia spuria. L’immagine ha certo bisogno di un mezzo per apparire a noi, di una collocazione (materiale o virtuale che sia), a cui però non si limita; essa è piuttosto un ente più incline alla migrazione che alla sedentarietà, è per sua natura intermediale e nomade, come del resto, molto prima, ci ricorda anche Warburg.

Qual è allora il «luogo delle immagini»? Non tanto il mezzo quanto, per Belting, l’essere umano in sé. Non si tratta certo di stabilire una prospettiva antropologica (che nulla ha a che vedere con l’etnologia) che pone l’uomo in una posizione di dominio sull’iconico come poteva essere quella dello sguardo della prospettiva rinascimentale, ma di comprendere che l’equilibrio del triangolo immagine-medium-corpo pende inevitabilmente sull’ultimo polo. È proprio il corpo in quanto tale ad essere la conditio sine qua non dell’immagine, un mezzo in se stesso attraverso cui essa si riproduce materialmente e simbolicamente, e a cui fa sempre riferimento:

La deplorata sovrapproduzione delle immagini odierne, ad esempio, stimola i nostri organi visivi tanto quanto può fortunatamente bloccarli o immunizzarli. Il rapido ritmo con il quale le immagini ci appaiono alla vista trova una compensazione in quello altrettanto rapido in cui esse si dileguano. […] Se nel corpo possiamo individuare il soggetto quale “luogo delle immagini” che noi stessi siamo, allora possiamo dire che esso rimane una pièce de resistence contro la fuga dei media. (Ivi, cit., p. 45).

Queste posizioni, a due decenni di distanza, si confermano un riferimento importante. Pensare al corpo come recipiente iconico e primo produttore di immagini (si pensi alle immagini mentali) può essere non solo una strategia di resistenza nell’epoca delle iperstimolazioni visive e tecniche, ma anche una strada per interpretare e leggere la contemporaneità nelle sue molteplici manifestazioni iconiche, dall’arte alla produzione di immagini in senso generale. E con esse tracciare un dialogo che ne riveli l’efficacia, la performatività, il senso e, infine, anche la storia.