Il leader. Riflessioni sul potere a partire da una nuova biografia di Hitler
Alessandro Romanello

08.02.2023

Lo storico contemporaneista Davide F. Jabes ha pubblicato nell’ottobre scorso, per l’editore Solferino, una biografia di Adolf Hitler, intitolata Il leader. Adolf Hitler: la manipolazione, il consenso, il potere, che coniuga le ragioni spesso divergenti della ricerca scientifica e della divulgazione con chiarezza, rigore e rispetto delle fonti.

Il volume è piuttosto agile (poco meno di 300 pagine) e si pone come un profilo biografico sintetico di Hitler, non certo paragonabile, per mole e ambizioni, alle monumentali biografie di Joachim Fest, Ian Kershaw e Volker Ullrich quanto piuttosto a quelle, più agili, di Rainer Zitelmann, di Hans-Ulrich Thamer o di Johann Chapoutot e Christian Ingrao. Negli undici capitoli del volume, rivolto al pubblico dei non specialisti colti, la tragica, disumana avventura hitleriana viene analizzata sotto il profilo storico, culturale ma anche militare (diverse biografie agili di Hitler tendono invece a riassumere le vicende belliche e a mettere maggiormente in luce gli aspetti politici del suo operato). Ai fini del discorso sulla natura del potere che intendo fare, mi soffermo brevemente sui primi capitoli del volume, poiché la Seconda Guerra Mondiale e la Soluzione finale sono già state oggetto di moltissimi studi di valore, ai quali non aggiungerei nulla. Sono invece l’infanzia, la giovinezza, la scalata al potere e la gestione del potere stesso da parte di Hitler che consentono ancora oggi diverse, inquietanti riflessioni (delle quali l’autore dà conto nelle Conclusioni al termine del volume).

Come è noto, Hitler partì dal basso, al pari di diversi altri protagonisti della storia moderna e contemporanea. Questa condizione piccolo-borghese gli diede un vantaggio rispetto ai politici tradizionali provenienti dall’establishment: una comprensione immediata del sentire delle classi popolari, delle loro fobie e paranoie. In questo senso, Hitler può essere accostato non solo a Mussolini ma anche a diversi leader “democratici” postbellici, dalla Thatcher a Clinton. Per di più, Hitler aveva goduto durante l’infanzia e l’adolescenza di un relativo benessere: l’esperienza della proletarizzazione, della vita in un dormitorio pubblico a Vienna gli conferì una sensibilità particolare per le paure e le ansie delle masse, così come la successiva esperienza al fronte lo abituò all’esercizio di una violenza sistematica, cieca e meccanica. La parabola hitleriana è nota a tutti e non è nei miei intenti riassumere il contenuto del libro ma sottolinearne alcuni punti, che dimostrano la sinistra attualità della sua figura.

È soprattutto nella scalata al potere, nelle tecniche impiegate per manipolare le masse e ottenerne il consenso che risiede il lato più “moderno” del suo agire politico. Prendendo spunto dal cinema e dalle tecniche pubblicitarie già in uso negli Stati Uniti, Hitler realizzò, tra il 1930 e il 1933, campagne elettorali spettacolari, al centro delle quali si poneva il “divo” Hitler, pronto a ricevere l’adorazione delle masse. Hitler fu il massimo fautore di quella “estetizzazione della politica” denunciata per tempo da Walter Benjamin nel saggio sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936).

Allo stesso tempo, Hitler dimostrò una notevole abilità nelle manovre politiche dietro le quinte, che avrebbe portato il “caporale boemo”, gravemente sottovalutato dai suoi partner conservatori, all’assunzione del Cancellierato. Spettacolarizzazione della politica dunque e sottovalutazione dell’”usurpatore” da parte dell’establishment. “Il livello della propaganda politica non è mai abbastanza basso”, affermava, non a caso, Hitler nel Mein Kampf, dimostrando un cinismo stupefacente, accompagnato da una notevole comprensione dei meccanismi della società di massa, meccanismi perversi che vediamo ancora oggi in azione, per quanto polverizzati e travestiti nel mondo dei social media.

Al centro del volume, si trova il capitolo sesto (Il mito del Führer e la società tedesca) - forse il più interessante ai fini di questa nota – che si concentra sull’organizzazione della società tedesca e sui meccanismi della gestione del consenso popolare e del potere nel Terzo Reich fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. La figura carismatica del Führer, che si poneva costantemente sopra le parti, garantiva la solidità del potere, assicurandosi il consenso delle masse e applicando inesorabilmente, allo stesso tempo, la tattica del divide et impera nei confronti dei suoi sottoposti diretti. L’elemento di maggiore modernità della prassi hitleriana è l’attenzione costante alla sensibilità e agli umori popolari, che anticipa non solo l’uso della statistica e dei sondaggi da parte dei politici contemporanei, ma anche altri tratti della società odierna, quali ad esempio la pianificazione del tempo libero e delle vacanze per larga parte della popolazione, il programma di una motorizzazione di massa (che non vide la luce soltanto a causa della guerra), la costruzione di una rete autostradale, l’uso massiccio e spregiudicato dei media allora disponibili (cinema e radio).

Quella cui Hitler pensava era indubbiamente una prefigurazione dell’odierna società dei consumi e dell’intrattenimento globale, nella quale il cittadino delegasse le responsabilità politiche allo Stato e accettasse con entusiasmo le dinamiche imposte alla sua vita dal capitalismo. Non è casuale, infatti, la stima reciproca tra Henry Ford e Hitler, cementata anche dall’antisemitismo, ma basata in primo luogo sull’adesione di entrambi ai modelli dell’industrialismo più avanzato. Il benessere relativo dei cittadini sarebbe stato pagato dallo sfruttamento più spietato degli “inferiori” (gli ebrei e gli slavi per Hitler, i neri e i bianchi poveri per Ford). Questi elementi indubbiamente moderni erano intrisi nel regime hitleriano di arcaismo (il potere taumaturgico, magico del Führer, gli intrecci tra varie burocrazie al fine di garantire al dittatore il ruolo di arbitro supremo, il culto romantico dell’eroismo ecc.) ma è certo che la commistione tra manipolazione (e intrattenimento) delle masse tramite i media, ricerca del consenso popolare e garanzie di un relativo benessere (a spese di altri), che è propria della società contemporanea, conobbe nel Terzo Reich una fase di sperimentazione, che a sua volta teneva conto di vari aspetti già consolidati della società americana (fordismo, taylorismo, individualismo feroce, socialdarwinismo travestito da meritocrazia ecc.).

Così come manipolava le masse, Hitler si serviva abilmente dei suoi diretti sottoposti, mettendoli sovente l’uno contro l’altro. Ponendosi pertanto come arbitro di ogni controversia, il suo potere si poneva come assoluto e indiscutibile, pur delegandone l’esecuzione ad altri. Se nella sovrapposizione delle competenze vi era, ancora una volta, un tratto arcaico funzionale al mantenimento della supremazia di Hitler, le varie burocrazie erano invece organizzate in modo moderno, tecnocratico: di qui, per esempio, quel nesso tra modernità (ossia organizzazione razionale e burocratizzazione del lavoro) e olocausto individuato da Zygmunt Bauman sul finire degli anni 80 del secolo scorso. Modernissima e sinistra appare anche la figura di Albert Speer, architetto di regime e ministro degli armamenti, manager efficientissimo e privo di scrupoli.

Speer si poneva come una sorta di alter ego borghese di Hitler, che ha rinunciato a qualsiasi considerazione di ordine etico ma sa portare a termine con straordinaria efficienza i compiti che gli sono stati assegnati. Se Hitler rappresenta dunque l’esempio più efficace di quella che Benjamin definì la “cooptazione del nichilismo al potere”, la società che stava progettando prefigura alcuni dei tratti più inquietanti del mondo in cui viviamo, compreso – occorre dirlo – l’imperialismo politico dissennato e in fondo suicida degli Stati nazionali, dal quale non sembra possibile in alcun modo liberarsi: non a caso un osservatore ha definito di recente la guerra in corso in Ucraina una guerra di Hitler contro Hitler.

Se è forse esagerato dire che l’orrenda, criminale parabola hitleriana anticipi certe tendenze implicitamente suicide del mondo contemporaneo, intrecciate alle dinamiche perverse di un capitalismo globalizzato senza più alcun senso del limite né regole, non è eccessivo invece affermare che la crisi della cultura cui assistiamo oggi abbia le sue radici anche nel Terzo Reich, nell’allineamento e nella complicità attiva di tanti intellettuali con un potere mostruoso e sfrenato.

Non a caso uno dei massimi intellettuali del Novecento, George Steiner, era ossessionato dalla figura di Hitler, arrivando a scrivere Il processo di San Cristobal (1981), un romanzo al centro del quale è posto, come è noto, un immaginario processo al dittatore tedesco. Nel cuore di tenebra della modernità Hitler ha un posto garantito.