Il G20 nel post-prometeismo
Paolo Missiroli

15.11.2021

L’esito del G20 appare deludente solo per chi, come gran parte dei nostri commentatori, si illude che i rapporti di forza sul piano globale possano essere mediati da un’assemblea plenaria, i cui membri sono stati selezionati anni orsono con criteri abbastanza arbitrari. Se qualcosa emerge da tale incontro è precisamente la sua scarsa rilevanza.

Basta scorrere la lista degli assenti per certificarne il significato meramente simbolico. Tutti sanno che Xi-Jinping e Vladimir Putin hanno seguito il summit dai rispettivi paesi, collegati virtualmente.

Non è sempre stato così, o almeno non in questa misura. Il G20 è stato concepito negli anni 90, nel pieno dell’egemonia statunitense sui processi di globalizzazione allora in esplosione. Il ruolo scarsamente dirimente delle dichiarazioni congiunte e dei summit non deve far dimenticare l’importanza degli incontri bilaterali che in questi consessi prendono luogo; essi sono stati, per lungo tempo, occasione d’incontro per i leader dei paesi membri di questo consesso.

Non bisogna poi dimenticare che è una banalizzazione quella secondo cui il G20 è per definizione un consesso occidentale. In realtà esso nasce per includere nella globalizzazione statunitense anche i paesi allora noti come BRICS, termine oggi ormai in disuso. L’incrinarsi dell’egemonia statunitense, il coraggio via via preso da paesi come la Cina e da ultimo il dissolvimento del mito dei BRICS ha reso il G20, lungi dal “successo” di cui parla Mario Draghi, poco più di un’occasione per fare qualche chiacchera tra i leader del mondo “libero”.

Da ultimo, l’atteggiamento più risolutamente oppositivo preso dagli USA di Trump e di Biden verso la Cina non ha certo facilitato una qualche presa di efficacia di questa ormai ridottissima, nei suoi numeri, assemblea.

La debolezza del consesso non corrisponde all’infinità di commenti fatti dai nostri opinionisti, ma certamente ha un riscontro nella vacuità delle dichiarazioni, che consistono sostanzialmente in auspici. Prendiamo, ad esempio, la questione climatica, la cui urgenza è ormai evidente.

L’unico risultato, forse, storicamente significativo di questo G20 è la conferma di quanto già poteva essere intravisto: la fine dell’era Trump (e con ogni probabilità di quella dei populismi di destra per come li abbiamo conosciuti negli anni 10) segna la fine politica del negazionismo sul climate change.

Questo non significa certo che non esisteranno per lungo tempo soggetti, anche potenti, che negheranno l’esistenza di questo fenomeno che chiamiamo, sinteticamente, crisi ecologica globale. Essi, tuttavia, non svolgono più un ruolo significativo nella definizione delle politiche globali o, almeno, degli auspici che questi consessi fanno.

Il G20 ha oramai accettato che la temperatura media del nostro pianeta aumenterà di un grado e mezzo e che la colpa di questo cambiamento risiede nel modo di produzione. Alleluja!

Tuttavia i nostri coraggiosi condottieri si trovano in un guado che non riescono ad attraversare. La prospettiva di gestione esclusivamente tecnica dell’Antropocene non ha, allo stesso tempo, ancora preso piede, ma appare già superata. Dopo la sbornia (culminata con l’inserimento della prospettiva geoingegneristica nella COP21) prometeica della metà degli anni 10, un numero crescente di studi e di movimenti politici critica la fattibilità (pratica e etico-politica) di questi progetti visionari.

Se la nostra condizione ecologico-planetaria non può più essere negata né si può fare il solito actum fidei nella tecnica, cosa resta in mano ai leader del mondo libero? Ben poco, giacché la soluzione reale consisterebbe in una revisione radicale del modo in cui, perlopiù e soprattutto, ci si rapporta al mondo naturale nella globalizzazione capitalistica.

Ecco il perché dei bla, bla, bla che caratterizzano questo G20. I membri di questa assemblea, ormai disposti a riconoscere che il Sistema Terra non è interessato alle loro dichiarazioni di buona fede e che il suo regolarsi omeostaticamente lo sta portando in un’altra fase della sua Storia (nella quale è tutto da vedere se ci sarà spazio, ad esempio, per tutta una serie di specie viventi, per vaste zone coltivate e non, per molte città e financo per alcuni Stati), non sanno tuttavia che fare per placarne l’Ira, giacché questo significherebbe intervenire su una seconda natura (quella del modo di produzione) che non hanno nemmeno idea, né voglia, di come modificare.

I nostri commentatori che più amano il famoso gioco da tavolo Risiko! non perdono occasione per ricordarci come vi siano addirittura alcuni stati (e moltissimi detentori dei mezzi di produzione) che scommettono sul cambio di stato della Terra. Vi è forse qualcuno che non ha sentito la solfa della Russia che è contenta che la temperatura aumenti perché così la Siberia diventerà un Eden, un paradiso coltivabile come l’Antartide lo era nel Cretaceo?

È senz’altro così; ma questo, lungi dal renderci edotti sull’affascinante cinismo dei board-gamers su scala globale, dovrebbe farci capire la loro stupidità.

Nessuno sa, né può sapere, gli esiti ultimi di questo cambio di stato del Sistema Terra; nessuno può dire quali virus si celano nei ghiacci ora in scioglimento, o nei corpi degli animali con cui via via andiamo mescolandoci; nessuno può vedere la Terra come un oggetto predicendo i risultati delle nostre azioni su di essa.

Più “lavoriamo” nel Globo, più scopriamo la Terra, dice Dipesh Chakrabarty. Questa seconda, a differenza del primo, ha un’attività propria che non può essere superata; la sua omeostasi non consiste nel rendere una zona “meno per noi” e un’altra “più per noi”, ma nel regolarsi attraverso meccanismi di feedback che non solo non conosciamo, ma ci è impossibile vedere interamente in linea di principio. Chi non ha capito questo, sta giocando appunto a Risiko!, dove la Terra è ferma, il clima non esiste, i territori sono infinitamente attraversabili e non hanno alcuna agentività, non oppongono alcuna resistenza.

Non è tuttavia questa la nostra condizione: essa è invece senza dubbio post-prometeica. La miopia di chi non lo capisce si fa di anno in anno più evidente.