Il futuro che passa
Ubaldo Fadini

23.07.2022

Il testo delicato e “politicamente” centrato (rispetto a tante estenuanti e in effetti deprimenti pseudo-celebrazioni correnti) di Monica Sarsini sulla figura di Pier Vittorio Tondelli, apparso proprio su “Tropico del Cancro”, mi permette di andare con il pensiero ad alcune righe di Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta nelle quali l'autore di Altri libertini ci restituisce la Firenze della metà di quel decennio come “grande capitale culturale” contrassegnata dall'insistere di un “centro vitale e fervido in cui batte il cuore della città”. Tra parentesi: è a questo centro che si può appunto rinviare la figura però paradossalmente appartata e in fondo così veramente eccentrica di Sarsini, riconosciuta da Tondelli, nelle stesse pagine da me richiamate, come scrittrice (e artista, aggiungo) che rinverdisce da par suo e comunque in totale autonomia quella “Firenze degli scrittori” che non ha cessato di manifestarsi nel secolo scorso, a partire dai suoi inizi.

Ma qui voglio riportare la conclusione del testo “fiorentino” di Tondelli, in uscita estrema infine dalle notti della “capitale giovanile italiana degli anni ottanta”: “Anche le ultime frequenze di vita si affievoliscono. Cala il torpore, la stanchezza. Il centro della città, il suo vecchio cuore millenario si irrigidisce nel silenzio e, privo di vita, ancora una notte si accascia” (cito da P. V. Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, con una nota di Fulvio Panzeri, Bompiani, Milano, 1990, p.85).

“Scenari italiani”, è vero, da cui spicca giustamente il profilo della “mia” città, ma le osservazioni di Tondelli, scrittore in ogni caso amato, mi lasciano (mi lasciarono, soprattutto in un tempo di ripiegamento “periferico”, se così posso dire, mettendo in campo altre sensibilità e intelligenze) un po' perplesso, un attimo incerto e questo è comunque, al di là di tutto, un fatto decisamente positivo. Firenze... Firenze e gli anni ottanta: quello che scrive Tondelli è esatto e quindi parziale, preciso e commovente. Muove e mettendo in movimento si accompagna ad altre figure, a situazioni differenti, a strade percorse diversamente, con oscillazioni e sbandamenti peculiari ed effettivamente significativi. Si parla di quegli anni come di un periodo di esplosione di creatività. È indiscutibile ma l'esplosione la declinerei senza esitazione al plurale e la riferirei ad un terreno veramente minato, espressione di una conflittualità – si potrebbe dire, perché no?, anche contraddittorietà – che aveva alle spalle una storia giovanile (generazionale...) variegata, polimorfica, senza la cui comprensione – forse però impossibile e allora vale di più l'idea del saggio di attenzione e in definitiva di cura, di un esercizio di etica pratica – non si riesce minimamente ad afferrare la “vita”, le “notti”, le “discese” fiorentine. Tondelli descrive la Firenze di quegli anni andando in prima battuta al di là “dei vissuti e delle esperienze personali”.

È una immagine che faccio mia, recuperando però un po' di “vissuto”, di vita vissuta (per impiegare una formula -“baule”). Mi piacerebbe restare su “Firenze capitale della cultura europea” e ricordare il ciclo di conferenze/letture/spettacoli/dibattiti curato da Ferruccio Masini (“L'orizzonte della parola”: titolo bellissimo!), nel Cenacolo di Santa Croce (1986), a cui partecipai traducendo un po' di testi con il mio tedesco allora ancora vivo, mascherando malamente ciò che aveva di me appunto a cuore Masini, il mio essere una sorta di “disadatto sociale” destinato a diventare nel “corso del tempo” (!), per riprendere Wim Wenders, una “rovina pensante” con l'ossessione del “prepararsi a restare morti tanto tempo” (omaggiando così il divenire impercettibile attraverso le parole di Thomas Pynchon); ma rimango invece sul centro della città che si accascia una volta “silenziato”, ritornato all'ordine imprescindibile della notte, e senza altre citazioni più o meno dirette rivendico la responsabilità, nel mio piccolissimo..., di avere appunto contribuito insieme ad altri/e a rendere minato il territorio e di averne mappato le possibili conseguenze in sintonia con l'esigenza di tanti ragazzi “che come me” si erano mossi negli anni settanta dalle periferie nel tentativo di arrivare proprio a mappare il possibile, a segnare di sé i modi di un essere diverso da ciò che pure allora s'imponeva, anche iniziando a mettere a valore una differenza rivestendola di originalità, con le dovute quindi esigenze di spettacolarizzazione e di gratificazione di narcisismi ben coltivati e “impreziositi”.

Dalle periferie e dalla provincia, “tecnicamente” e “professionalmente” predisposti al confronto duro con gli altri ragazzi più “centrati”, confinati nei licei, in quei luoghi di scontato indirizzo di buona parte delle teste che poi si ritrovarono, con il passare degli anni e oltre le “esplosioni di creatività”, da qualche parte “sistemate” (e che però ancora oggi compensano forse qualche disagio e un po' di frustrazione con ben calibrate “celebrazioni”). Insomma, delle risorse di possibile erano state prodotte e/o rinvenute in quegli anni e la mappatura di cui parlo e che ho sotto gli “occhi” della memoria mi indica che qualcosa da far esplodere (metaforicamente, s'intende...) è ancora presente e chissà cos'altro che non riesco a ricordare. Certo, le avventure in centro si sono presto esaurite, la pratica del minare è stata per forza di cose abbandonata: i ritorni in periferia non avevano più termine, non si trovavano ormai i punti di arrivo. Restava qualche “carta” (le mappe del possibile...) da condividere ma l'esperienza del far “brillare”/battere culturalmente e politicamente il “vecchio cuore millenario della città” non poteva certo essere rimossa, dimenticata, contro coloro che lo volevano invece consegnare ai progetti di nientificazione pure della sua anima e della sua “carne”: dagli “stragisti” di un tempo seguente ai tanti progetti di rapina e di desertificazione, di quasi riduzione a nulla della sua magnifica e per fortuna indomabile in/differenza di fondo rispetto a coloro che realmente non smettono di pro-muovere la morte, ad ogni livello.

Molto altro sarebbe da aggiungere ma voglio concludere queste annotazioni con la mia vecchia traduzione (se non ricordo male...) di un passo di Rainer Maria Rilke, tratto da I quaderni di Malte Laurids Brigge, che fu poi commentato appunto a Firenze, nel ciclo masiniano, da Hans Georg Gadamer e che forse può richiamare qualcosa del correre incessante nel cuore della città da cui non si riesce a tenersene lontani, per riprendere infine ancora Tondelli: “Si crederà che esistono simile case? No, si dirà, io falsifico. Questa è la verità, a cui non tolgo e non aggiungo nulla, naturalmente. Dove potrei attingere? Si sa che sono povero. Lo si sa. Case? Ma, per essere precisi, erano case che non c'erano più. Case demolite da cima a fondo. Ciò che c'era, erano le altre case, le alte case vicine che avevano fiancheggiato quelle distrutte. Si notava che erano in pericolo di cadere da quando era stato loro tolto l'appoggio a lato; un'intera armatura di lunghe travi incatramate era piantata di sghembo tra il suolo ricoperto di macerie e il muro messo allo scoperto. Non so se ho già detto che parlo di questo muro. Ma non era, per così dire, il primo muro delle case presenti (come si sarebbe potuto immaginare), bensì l'ultimo delle case demolite. Si scorgeva il suo lato interno. Si notavano in ogni piano le pareti delle camere, a cui erano ancora attaccate delle tappezzerie, e qua e là tracce dei pavimenti o delle soffitte. (…) E da queste pareti che erano state azzurre, verdi, gialle, ora inquadrate dalle linee violate delle tramezze distrutte, proveniva il soffio di questa vita, il soffio testardo, pigro, ammuffito, che nessun vento aveva ancora disperso. In esso c'erano i mezzogiorni e le malattie e l'ultimo respiro, il fumo vecchio di anni, il sudore che scorre sotto le ascelle e rende pesanti i vestiti, l'alito stantio delle bocche (…). E molto si era aggiunto dal basso, dall'abisso della viuzza che evaporava, e altro era stillato dall'alto con la pioggia, che sulle città non è pulita. E qualcosa avevano portato i venti deboli, divenuti casalinghi, che restano sempre nella stessa strada, e molto altro c'era ancora, di cui non si conosceva l'origine. Ho detto che erano stati demoliti tutti i muri, fuorché l'ultimo? Ora di questo muro sto parlando. Si dirà che devo essere rimasto là a lungo; ma giuro che iniziai a correre non appena riconobbi quel muro. Perché questo è il terribile, che io lo riconobbi. Qui riconosco tutto e perciò immediatamente penetra in me: in me è di casa”.