Il femminismo di fronte a Marx: Silvia Federici
Melania Moltelo

26.02.2022

Nella raccolta di saggi intitolata Genere e capitale Silvia Federici effettua una ricostruzione femminista del pensiero di Marx, mettendo al centro della riflessione il ruolo occupato dalle donne nei processi di lotta al capitale. Questa ricostruzione implica una critica delle posizioni usuali della sinistra: la sinistra ha sempre privilegiato specifici settori della classe operaia nella costruzione del soggetto rivoluzionario, escludendo così strati di soggettività ugualmente sfruttate dall’organizzazione della lotta.

Il salario è stato considerato lo spartiacque tra lavoro e non-lavoro, finendo per relegare a uno stato “feudale” o “pre-capitalistico” l’enorme quantità di lavoro socialmente utile prodotta in casa dalle donne. Il carrierismo e la ridistribuzione dei ruoli in ambito domestico non hanno soddisfatto le esigenze emancipatorie di molte donne, convinte che la loro liberazione effettiva si giocasse sul piano di una ridefinizione della lotta di classe.

Da qui la proposta di un salario al lavoro domestico, importante esperienza che ha coinvolto il femminismo italiano, è da intendersi come disfacimento dell’ideologia capitalistica che identifica la mancanza di salario con la mancanza di potere e riduce l’apporto di forza dei lavoratori non salariati alla sua contestazione. Sebbene non produca salario, il lavoro domestico/riproduttivo è essenziale alla produzione di forza-lavoro attraverso prestazioni affettive e sessuali mistificate come inclinazioni naturali.

La ripresa di questa prospettiva mi sembra interessante soprattutto per due motivi. In primo luogo, un’analisi critica del lavoro domestico aiuta a fare luce sul lavoro di tutte quelle fette di popolazione che sono ancora senza salario.

Silvia Federici fa direttamente riferimento al capitale americano che si è espanso attraverso lo schiavismo e il lavoro non stipendiato di milioni di donne e uomini nei campi, ma il discorso può estendersi anche alle nuove forme di sfruttamento che si esercitano attraverso la proliferazione di stage e tirocini e, in modo sempre più tragico, attraverso la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, forme di lavoro che depotenziano nettamente la garanzia di diritti e che, da un’altra prospettiva, consentono di allargare l’identificazione di soggetti potenzialmente rivoluzionari.

Il punto di vista femminista, inoltre, induce a mettere in discussione l’idea marxiana della funzione dello sviluppo tecnologico nella formazione della società comunista, poiché il lavoro riproduttivo trascurato da Marx si rivela lavoro che non può essere mai meccanizzato totalmente.

Non solo l’idea di una riduzione del lavoro necessario veicolata dall’automazione sottovaluta il disastro ecologico causato dalle macchine di produzione, ma esclude dalla sua stessa definizione il lavoro sessuale e il lavoro di cura la cui meccanizzazione parziale rende conto del fallimento di un rovesciamento intrinseco del modello sociale ed economico vigente e stimola il pensiero di nuove strategie di resistenza.

Lo scetticismo relativo alla riduzione del lavoro domestico, soprattutto affettivo, attraverso la meccanizzazione ha già provocato l’interesse femminista per la sperimentazione di forme più collettive di riproduzione e una ridistribuzione più ampia del nucleo familistico, inducendo a ripensare in senso più comunitario l’utilizzo delle ricchezze – naturali e prodotte – e a inventare modelli alternativi di società a quelli legittimati finora dalla logica capitalistica, rafforzando infine la lotta alle disuguaglianze.