Il dissidente e la trappola dell’Occidente: riflessioni sulla mostra di Badiucao a Brescia
Marco Papetti
Badiucao, Fake advertising – iChain (2020), Museo di Santa Giulia, Brescia

10.12.2021

È da poco stata inaugurata, nelle sale del museo di Santa Giulia in Brescia, l’esposizione BADIUCAO – opere di un artista dissidente, prima personale della carriera di Badiucao, poliedrico artista nato nel 1983 in Cina ed emigrato in giovane età in Australia, dove ha iniziato a pubblicare, sotto questo pseudonimo, opere critiche verso il regime cinese, sin da subito caratterizzate da una forte vena satirica e da grande efficacia espressiva.

Oggetto della sua contestazione artistica sono in primo luogo le politiche repressive del governo del suo Paese, denunciate soprattutto attraverso la rammemorazione di fatti brutali di cui tale governo è stato o continua ad essere artefice: da piazza Tienanmen – evento la cui scoperta ha avuto un peso determinante per la nascita della sua vocazione civile – fino alle recenti proteste di Hong Kong, passando per i drammi delle minoranze, come quello, su cui aleggia un sinistro timore genocidario, tuttora vissuto nello Xinjiang dagli Uiguri.

Non mancano poi sferzate agli uomini di potere della Cina moderna: bersaglio privilegiato di Badiucao è l’attuale Presidente della Repubblica Popolare Xi Jinping, ritratto con incisiva irriverenza, ma nemmeno Mao, il presunto padre buono della patria, si sottrae a quest’attività implacabile di smascheramento del reale volto degli uomini che guidano o hanno guidato la nazione cinese, levando la patina oleografica con cui la tradizione e i mezzi di propaganda sono soliti raffigurarli.

Più che delle opere e del loro valore, certamente alto (Badiucao ha avuto come maestro il celebre Ai Weiwei) e di cui colpisce la varietà delle forme espressive utilizzate (installazioni, video, disegni, stampe digitali…), è sulla figura che Badiucao incarna, quella del dissidente, che si vorrebbe meditare, così come sul contenuto e sui destinatari del suo messaggio.

Certamente il dissidente politico ha assunto nel mondo occidentale, dal secondo Dopoguerra in avanti, la consistenza di un vero e proprio mito – forse come prosecuzione inconsapevole di quell’altro tipo mitico dell’immaginario politico novecentesco che in Europa è il partigiano – facendosi allo stesso tempo però portatore di un’ambiguità.

Infatti, se la sua contrapposizione alla tirannia del potere da cui spesso è minacciato nella vita è encomiabile e merita l’attenzione che chiede nei paesi democratici, questa necessità di ascolto corre il rischio di trasformarsi in un’esaltazione acritica dello stile di vita occidentale e del sistema socioeconomico che lo sostiene, tutt’altro che paradisiaco.

Per chiarire questo punto può essere utile rileggere le riflessioni fatte quasi cinquant’anni fa da quel grande dissidente in terra europea che fu Pasolini – dissidente a un Potere nuovo, impersonale e omologante, di cui vedeva la natura subdola e di cui preconizzava le mosse a lungo e a breve termine, individuandovi, negli interventi sulla stampa quotidiana raccolti negli Scritti corsari, il vero pericolo dell’epoca contemporanea. Esso non è altro che l’ideologia consumistica occidentale, divenuta a tal punto pervasiva, grazie alle possibilità offerte dai mezzi di comunicazione, da essere «brutalmente totalitaria» (P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, p. 50); è la tirannia silenziosa del capitalismo, che, camuffandosi dietro a messaggi libertari, impartisce ordini alle masse, inculcando in ogni individuo l’«ansia degradante» – manifestatasi anche in Italia a partire dagli anni del Boom economico – «di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero» (Ivi, p. 60).

La tolleranza di cui quest’ideologia si fa portavoce con i suoi modelli di vita è fasulla, perché, scrive Pasolini, «in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore» (Ivi, p. 46), e l’edonismo libertario che diffonde non è da meno, dal momento che «nasconde […] una decisione a preordinare tutto» (Ibid.) secondo i codici di un individualismo esasperato e di una illusoria «joie de vivre» (Ibid.), che si riflette nei comportamenti quotidiani di individui che, credendo di coltivare la propria autonomia e di esercitare la propria libertà, sono invece sempre più isolati e simili.

Quanto il panorama descritto quasi cinquant’anni fa da Pasolini assomigli al mondo di oggi è subito evidente. Occorre pertanto chiedersi a quale società guardi un artista come Badiucao, dissidente verso un regime liberticida, certo, ma la cui furia produttiva e consumistica è parente stretta di quella generata dalla Weltanschauung del mondo occidentale: quest’ultimo ha infatti ormai esportato in tutto il pianeta la propria ideologia capitalistica, tanto nei paesi democratici quanto in quelli non-democratici, ma continua a usare la democraticità come uno scudo dietro cui nascondere, per interesse, la comunanza tra le proprie pratiche produttive e quelle di paesi antidemocratici come la Cina.

Perché il messaggio di un dissidente sia proficuo, allora, non deve cedere alle sirene con cui l’Europa e gli USA si propongono come la terra promessa, da carezzare e blandire, della libertà e della felicità e con cui invitano a una difesa a priori del proprio modello di vita; non deve cadere nella tela che in essi è ordita – e abilmente nascosta – per invischiare in logiche di dominio e consumo tutto ciò che l’opportunismo capitalista intercetta (anche le cause giuste: si pensi, per esempio, all’uso strumentale e capzioso fatto da tante multinazionali, dei cui dipendenti sono tristemente note le condizioni di lavoro, delle battaglie LGBT o delle battaglie ecologiche), bensì denunciare i mali che conseguono dalla medesima visione del mondo prometeica e omologante che, nata in Occidente, va imponendosi da decenni in tutto il Globo.

Fortunatamente, Badiucao non tralascia di dirigere il suo amaro sarcasmo anche su questo punto, invitando il visitatore, italiano ed europeo, a una riflessione (auto)critica: eloquenti, in questo senso, sono, tra le opere esposte, il ciclo di pannelli retroilluminati che imitano quelli pubblicitari presenti nelle strade delle nostre città, ma che sostituiscono agli slogan e ai nomi di note marche occidentali frasi che ricordano le pratiche di sfruttamento celate dietro alla produzione delle loro merci; ma anche, alla fine del percorso museale, i grandi disegni che riproducono fotografie drammatiche che hanno, in vari periodi, suscitato l’indignazione (di breve durata) dell’Europa, a ricordaci i limiti della nostra attenzione all’altro, e forse a suggerire che la nostra dimenticanza potrebbe estendersi, chissà, anche a quanto appena visto e al suo autore.

Egli sfugge, così, ai fraintendimenti in cui può incorrere la sua attività di artista e quella di ogni dissidente che si rivolga alle coscienze dell’Occidente contemporaneo: non sono solo le politiche tiranniche del Potere cinese ad essere denunciate nei suoi lavori, ma in generale la disumanità di un mondo che ovunque si volti non trova che denaro e potere, profitto e sfruttamento, invece che aiuto e cooperazione.