Il discontinuo e il quotidiano. Per una diversa civilizzazione
Ubaldo Fadini

12.07.2021

Forse eravamo particolarmente stupidi, più del solito, in un tempo non troppo lontano, ma c'era comunque una “voglia di vivere” che ci accompagnava, per riprendere “Liberi Liberi” di Vasco Rossi. Dove ritrovarla quella “voglia” oggi, in un quadro di “civilizzazione” del mondo che presenta aspetti decisamente inquietanti, che hanno dei precedenti storici almeno in parte riassumibili in alcune delle esperienze collettive più tragiche del secolo passato? Una indicazione per portare avanti la ricerca la colgo ancora una volta in alcune pagine di André Gorz, perlomeno a livello di stimolo, che mi consentono di fornire un po' di sostanza teorica all'invito di pensare appunto una nuova “civilizzazione del mondo”, quanto mai urgente, in termini effettivamente differenti da quelli abituali.

Quali sono i passi da compiere per arrivare a pensare “eine ganz andere Weltzivilisation”, una “civilizzazione del mondo” realmente altra? Innanzitutto si deve muovere da una fenomenologia coerente di quelle trasformazioni produttive che a partire dagli anni '70 del Novecento hanno profondamente cambiato gli assetti e le configurazioni dell'allora “società industriale”. Nell'intervista che sto richiamando (Addio al lavoro, Castelvecchi, Roma, 2020), realizzata nel 2000, Gorz muove dalla rilevazione sociologicamente avvertita che il lavoro salariato sta rapidamente mutando, manifestandosi come sempre più discontinuo nei confronti di quella sua stabilità relativa propria del modello fordista.

Si sa cosa ciò ha comportato “nel corso del tempo” e lo vediamo molto bene soprattutto oggi: il venir meno di regole contrattuali, l'indebolimento del diritto di lavoro, la scomparsa progressiva di condizioni lavorative inquadrate secondo regole determinate, il ridursi inesorabile dei posti di lavoro garantiti. Una conseguenza del lungo processo di smantellamento dello Stato sociale, cioè l''estinguersi del “contratto sociale di tipo socialdemocratico o cristiano-sociale”, con la sua pretesa di conciliare capitale e lavoro, di domare in un qualche modo gli “spiriti animali” del “nostro” modo di produzione, è data dal fatto che appare sempre più complicato – proprio a partire dalla rilevazione che la costruzione sociale non è più fondata unicamente sul lavoro salariato – mettere in piedi dei progetti di esistenza che possano contare su quella continuità d'espressione delle capacità lavorative in grado di conferire senso, identità certa, appartenenze solide al vivere individuale.

Insomma: la nostra costruzione sociale presenta crepe sempre più vistose, delle incrinature reali, a cui si può parzialmente far corrispondere il dilagare dei rapporti di lavoro precari, quelli considerati una volta benevolmente come “flessibili”, accompagnati da un sentimento del correre di qua e di là (in effetti: a vuoto) e dalla compensazione, per molti illusoria, di traguardi, dispensati a piene mani, di gratificazione narcisistica, da cogliersi come stimoli appropriati a favorire il più mortifero possibile “individualismo”.

Si potrebbe continuare a lungo sul motivo della perdita di centralità del lavoro salariato e su come ciò comporti una vera e propria difficoltà a qualificare comunque l'esistere sotto veste “sociale”, in un quadro ben preciso di determinazione storico-economica, ma a me interessa in particolare segnalare come al posto di tale centralità subentri a poco a poco una discontinuità dello stesso, con le negatività almeno in parte segnalate sopra, nel testo: è su questa discontinuità che va portata l'attenzione perché essa possa essere altrimenti pensata e articolata, nel senso proprio di farne invece la condizione per progettare diversamente la vita, il nostro stesso quotidiano, per arricchire il tutto di piani, relazioni, processi non immediatamente subalterni alla legge del plusvalore.

A questo punto sarebbe forse anche opportuno mettere in gioco quelle ricerche critiche sulla vita quotidiana che spesso hanno dato sostanza alle tradizioni novecentesche del pensiero radicale: si pensi alle analisi di Henri Lefebvre o ad alcuni sviluppi della cosiddetta “Scuola di Budapest”, in particolare ad Ágnes Heller, negli anni '60 del secolo scorso, ma qui va evidenziato un passaggio del ragionamento gorziano, a me particolarmente caro, che arriva a sottolineare come sia indispensabile garantire un reddito di base soprattutto calibrato sugli spazi intermedi tra le attività di lavoro salariato discontinuo. Per dirla con un linguaggio prossimo a un registro più nettamente filosofico: è il “frattempo” a balzare qui in primo piano, ad avanzare così delle pretese di primato nel complesso delle vicende umane, a spingere verso una ineludibile pratica di riformulazione di spazi di vita effettivamente liberati dal giogo della valorizzazione – appunto ad ogni costo – di capitale.

Alle spalle di queste considerazioni c'è ovviamente anche la vivacità indomabile del marxismo autonomo novecentesco, con un occhio di riguardo alle criticità sempre più evidenti della legge del valore, con le sue presunzioni di validità comunque illimitata. Gorz richiama il fatto della complicazione, ai limiti dell'irrisolvibile, propria dei tentativi di individuare esattamente quando inizia e finisce il lavoro e cosa propriamente gli è proprio. A ciò si affianca la rilevazione di come la forza-lavoro odierna si caratterizzi per quell'acquisizione incessante di conoscenze, saperi, capacità comunicative/conversazionali e altro ancora che contribuisce in effetti ad aumentare la produttività del lavoro “diretto” (in ogni senso...) e che viene raffigurata da molti con l'espressione quanto mai ambigua, a voler essere “semplici”, di “capitale umano”.

E' in tale ottica che si sviluppa una riflessione, sempre da parte di Gorz, sulla differenza tra la formazione, da intendersi come strettamente “professionale” e abbastanza rigidamente indirizzata, e l'istruzione, compresa come ciò che supporta la tipica capacità umana di dispiegare talenti, sensibilità, immaginazione, creatività e che entra ormai in maniera sempre più importante nella stessa produzione “diretta”. Su questa base si comprende pure la critica alla concezione corrente della retribuzione riferita soltanto al lavoro “diretto” mentre invece si tratta di allargarla all'insieme dell'agire umano.

Per Gorz è allora indispensabile pensare la nostra società non solamente attraverso la qualifica del lavoro, bensì afferrandola come complesso di “attività molteplici” che presuppone (lo richiede politicamente...) l'erogazione di un reddito senza condizioni, non vincolato a prestazioni definite di lavoro “diretto”. In tal modo si fa strada quell'idea del reddito di base incondizionato che si libera dal collegamento/legame, sostenuto da molti studiosi e in precedenza dallo stesso Gorz, con il diritto al lavoro (“salariato”).

In breve: accanto alla rilevazione dell'impossibilità di misurare il lavoro solamente “in unità temporali” o di distribuirlo in modalità rigidamente schematiche, si presenta la percezione di un tempo, all'interno della nostra società, che non è qualificabile come direttamente produttivo. Per uno studioso attento a riproporre il progetto moderno dell'autonomia e della riflessività e pronto a cogliere le nuove possibilità di finanziamento del reddito di base (penso oggi in particolare allo sviluppo impetuoso dell'economia dei big data), l'insistenza sulla incondizionatezza di quest'ultimo è decisiva e vale anche in riferimento al complesso delle attività che è possibile concretizzare, dato che si deve appunto pensare a tale reddito come a ciò che consente uno sviluppo reale di attività che sono valide in sé e per sé e che vengono così sottratte a catture e controlli strumentali.

Per ribadire tutto questo e l'urgenza di quel compito da affrontare e che consiste nel tentare di costruire i primi elementi di una civiltà a livello mondiale assolutamente diversa da quella “capitalista”, si può citare direttamente ancora Gorz: “Se devono continuare a esserci genuine iniziative civiche di sostegno, di cura, di maternità su base volontaria e di comune utilità, il reddito di base deve valere come condizione per la volontarietà, e non viceversa.

Dev'essere quindi incondizionato e legato alla creazione di istituzioni pubbliche sul territorio che garantiscano e incoraggino la collaborazione, la reciprocità e le diverse attività individuali e collettive. Dobbiamo guardare al reddito di base come a un presupposto che permetta uno sviluppo illimitato di attività che sono valide in sé. Da esse dipendono in ultima istanza il senso della vita e il dispiegamento delle relazioni umane. Il reddito di base incondizionato sottrae queste attività sia alla loro riduzione a professione sia alla loro monetizzazione, per non parlare dei controlli normalizzatori delle burocrazie dello stato sociale” (Addio al lavoro, pp.34-35).