Premessa
«Salve, figlio di Semele dai begli occhi; non è in alcun modo
Possibile a chi si dimentica di te comporre un dolce canto»
(Inni Omerici, VII)1
La ragione che mi porta a proporre uno studio sul dionisiaco oggi è riconducibile essenzialmente a tre diverse motivazioni, non direttamente collegate tra loro: 1) la dimenticanza in cui versa, oggi, il concetto di dionisiaco - perfino all’interno di filosofie che, nel contemporaneo, si occupano dei temi storicamente e tradizionalmente collegati a questa dimensione; 2) la necessità di reagire, da un lato, alle immagine stereotipate restituite da quelle ricerche che, ancora oggi, si occupano del concetto dell’uomo e delle sue rappresentazioni e, dall’altro, alle ricerche che, invece, si muovono nella direzione di una ridefinizione integrale di un concetto di uomo che, ai giorni nostri, si vorrebbe ristrutturare e ridisegnare in base alle più recenti acquisizioni delle scienze umane e soprattutto del pensiero scientifico-tecnologico - il quale è, a un passo, dal dichiarare come fatto ormai avvenuto quella decisiva previsione di Foucault sulla «morte dell’uomo»; 3) la presa di coscienza del fatto che né una filosofia del dionisiaco, né tanto meno una filosofia dionisiaca, siano state mai tentate dopo Nietzsche - con l’importante eccezione del solo Bataille, a cui va riconosciuto, come si vedrà, un tentativo di questo genere.
Questo lavoro non ha la pretesa di studiare in maniera compiuta i diversi fenomeni collegati al dionisiaco dal punto di vista storico, religioso e filosofico; nella consapevolezza che una ricerca di questo tipo dovrebbe tirare in ballo un numero importante di discipline - le cui conclusioni spesso convergono su aspetti decisivi e su aspetti altrettanto decisivi, spesso, divergono - esso si muove piuttosto nel tentativo di comprendere le modalità attraverso le quali il concetto filosofico del dionisiaco - a partire dalla sua più importante formulazione in Nietzsche - fa irruzione all’interno del pensiero filosofico contemporaneo: specialmente in ambito francese, ma non solo; specialmente fra coloro che si sono fatti protagonisti della celebre Nietzsche Reinassance, ma non solo.
Nonostante la consapevolezza di cui ho parlato, questo lavoro non potrebbe giungere a conclusioni soddisfacenti se prendesse in considerazione soltanto l’ambito strettamente filosofico della questione: perciò, affiancherò alle questioni filosofiche inerenti al dionisiaco una serie di studi di carattere antropologico, estetico o psicoanalitico che consentono di approfondire in maniera piena alcuni aspetti fondamentali che si tratta di mettere in luce. Cercherò quindi di concentrarmi, attraverso questi strumenti, sulle modalità con le quali, anche in maniera tacita, i singoli autori presi in considerazione si affacciano a questa dimensione e ne fanno una tematica essenziale dei loro percorsi intellettuali; la finalità di questo studio resta però, in fondo, dimostrare la vitalità del concetto stesso di dionisiaco anche nel mondo contemporaneo, a partire dalla sua inattualità: esso riuscirà nel suo intento se, infine, diverrà chiaro quanto tutto ciò che farò rientrare sotto il segno del dionisiaco rappresenti ancora, per noi, un tema di ricerca tutt’altro che esaurito.
La linea che, fin dal titolo, viene tracciata - da Nietzsche a Carmelo Bene - non deve naturalmente essere intesa in un senso meramente cronologico e nemmeno secondo l’arbitraria attribuzione di una continuità che sarebbe difficilmente dimostrabile: piuttosto, essa non indica altro che la persistenza di una via d’accesso a una certa dimensione, la dimensione dionisiaca, che rimane sempre aperta a nuove visitazioni, a nuove esperienze filosofiche le quali, a stretto contatto con essa, si sviluppano in senso divergente rispetto ad alcune acquisizioni del pensiero occidentale, considerate dapprima come granitiche – una certa ripetibilità del senso. Attraverso l’accesso a questa dimensione dionisiaca, gli autori di cui ci occuperemo nelle pagine che seguono mettono in discussione alcuni dei concetti fondamentali della filosofia occidentale: l’io, la coscienza, la ragione, l’identità, la civiltà, la natura, la morale, la rappresentazione. Ma, soprattutto, ciò che viene effettivamente messo in discussione è, più compiutamente, l’uomo stesso, il concetto di uomo che è stato sviluppato dalle scienze umane e dal pensiero filosofico e che deve essere, invece, radicalmente ripensato.
Dioniso è una delle più celebri divinità del paganesimo greco: arcaicamente, era una divinità della vegetazione e della forza vitale contenuta all’interno del rigoglio naturale; è però certamente meglio conosciuto come divinità dell’estasi bacchica, del vino, dell’ebbrezza. La tradizione concorda essenzialmente nel considerarlo una divinità straniera: esso giunge probabilmente in Grecia dall’Asia, inizialmente a Creta - all’apogeo della civiltà minoica - sotto forma di culto orfico, legato alla mitologia di Zagreo, di cui si parlerà diffusamente. Successivamente, il culto dionisiaco, nell’età classica, si trasforma in rito orgiastico, coincidente alla celebrazione delle feste dionisiache: una delle caratteristiche principali del dio, a quest’altezza, risulta essere la possessione, la possibilità di liberare il singolo dalla propria individualità, dal proprio io, per giungere in una dimensione, strettamente legata all’ebbrezza, di perfetta armonia con la natura e con il flusso vitale, di cui adesso il singolo si fa diretta espressione, recuperando la sua radice pre-logica e pre-razionale.
Questo è il punto di partenza dell’indagine di Friedrich Nietzsche, da cui prenderemo le mosse, il quale oppone a questa forza vitale, a questa dis-individualizzazione, a questo venir meno della coscienza e della ragione, il principio apollineo - come istanza fondamentale che presiede invece all’universo delle forme, dell’ordine, del razionale, del logico. Il concetto del dionisiaco proposto da Nietzsche diverrà un punto di partenza fondamentale per la maggior parte delle indagini intorno a questi aspetti, alla figura di Dioniso, alla grecità in generale, non solo dal punto di vista filosofico, ma anche nelle ricerche filologiche, mitologiche, o storico-religiose: insieme a Nietzsche, Walter Friedrich Otto, Karolì Kerényi e Giorgio Colli costruiscono il profilo completo del concetto di dionisiaco, per lo meno per quanto riguarda le interpretazioni che abbiamo definito “classiche”. Se l'opzione nietzscheana - che proponeva Dioniso come dio del tragico - è testimoniata anche nell'opera degli antichi, lo stesso deve dirsi rispetto all'altro lato della medaglia, per così dire: la presenza dionisiaca è attestata anche nel contesto delle rappresentazioni comiche antiche, a partire dalla Commedia Attica; se il regno dionisiaco è quello del pathos – dell'emozione, della sensazione estrema – non può essergli estraneo il fenomeno del riso e il dominio della festa – ad esempio nel Carnevale; sarà necessario indagare su questi ulteriori elementi dionisiaci, per segnalare la presenza, sempre latente, di una certa apertura al possibile, alla quale sempre tale concetto è stato, storicamente, affine.
I successivi capitoli sono invece dedicati a due figure fondamentali: da un lato Michel Foucault, il quale, occupandosi del tema della follia - che alcuni importanti studiosi della grecità avevano ricondotto, per alcuni aspetti, al dionisiaco - riattualizza il concetto nietzscheano del dionisiaco nel suo concetto di sragione - ma i riferimenti di Foucault al dionisiaco, come si vedrà, non riguardano soltanto gli studi sulla follia: è necessario prendere in considerazione almeno la riflessione foucaultiana sulla letteratura e quella sul sogno; dall’altro Georges Bataille, in cui viene invece sviluppato un pensiero che vira decisamente verso il dionisiaco: l’idea cardine della sua produzione è, infatti, il superamento dell’individuo razionale della tradizione occidentale per recuperare il fondo irrazionale dell’uomo nella sua vitalità, legata all’istintualità e alla corporeità - attraverso un’analisi dei principali concetti di Bataille, la dépense, il male, l’esperienza, la chance, si vedrà come la filosofia batailliana sia uno dei tentativi maggiori di realizzare una filosofia compiutamente dionisiaca che si risolve in ultima istanza in una vera e propria antropologia del dionisiaco: in un pensiero dell’uomo ai confini dell’uomo.
Nel quarto capitolo di questo studio, inoltre, prenderò in considerazione il rapporto tra il dionisiaco e il grande tema dell’alterità, riflettendo intorno alla diversa concezione di due studiosi come Renè Girard e Jean-Pierre Vernant - soprattutto sull’analisi della tragedia di Euripide Le Baccanti - unica tragedia greca a noi nota in cui compaia in scena lo stesso Dioniso e punto di partenza privilegiato per comprendere il legame tra il dionisiaco e l’alterità. Dioniso diventa, dunque, una grande figura dell’Altro, la cui irruzione può causare esiti distruttivi rispetto alla pretesa di compiutezza dell’identità e dell’io, ma anche e, soprattutto, esiti creativi: Dioniso si presenta infatti come figura del totalmente-Altro ma in realtà esso viene accolto come istanza propria e familiare dall’identità stessa, la quale può adesso, attraverso l’irruzione dionisiaca, riconoscere quella profonda alterità come qualcosa di familiare, di ancor più profondamente proprio rispetto all’identità stessa; in questo senso, prenderemo in considerazione il legame del dionisiaco con la dinamica del desiderio e con il concetto psicoanalitico del perturbante.
Un ultimo capitolo è dedicato alla persistenza del dionisiaco all’interno di alcune delle maggiori esperienze del teatro novecentesco d’avanguardia e post-avanguardista: soprattutto in Alfred Jarry, Antonin Artaud e Carmelo Bene. Il teatro è, fin dalla sua origine greca, legato indissolubilmente al dionisiaco: la tragedia stessa è stata intesa da Nietzsche come sintesi dello spirito apollineo e dello spirito dionisiaco, o meglio come rappresentazione apollinea delle forze originariamente dionisiache che sono all’origine di questa forma d’arte. Ma già lo stesso Nietzsche aveva individuato nella tragedia di Euripide e, successivamente, nelle forme moderne di teatro, il prevalere dell’elemento apollineo su quello dionisiaco, che viene progressivamente ridotto al silenzio. Nelle esperienze di teatro che si tratta di analizzare, prima da un punto di vista teorico e successivamente da un punto di vista pratico, sembra che si compia un’inversione rispetto alla tendenza che ha storicamente accompagnato lo sviluppo del teatro occidentale: diviene fondante la volontà di superare alcune caratteristiche del dramma borghese di rappresentazione, per raggiungere un teatro originario, maggiormente vitale, che scompagini l’universo delle forme - fino a giungere quasi a distruggerle - per far emergere l’esperienza unica di un teatro dionisiaco - il quale ritrova la coscienza tragica del teatro delle origini in un ultimo tentativo di sfuggire definitivamente alla decadenza della società borghese e delle sue forme borghesi di ragione ordinante e di teatro come rappresentazione.
Acquisita la persistenza di elementi dionisiaci all’interno di un certo pensiero filosofico, psicologico, antropologico, estetico, letterario contemporaneo potremo dunque cercare di delineare una definizione del dionisiaco che non voglia essere comprensiva né cerchi di delineare un significato ultimo. D’altronde, cercare di definire razionalmente ciò che si oppone ad ogni pensiero discorsivo e conoscitivo, che vanifica ogni tentativo della ragione di afferrarlo, è un’impresa destinata da sé al fallimento. Potremo solamente rischiarare la coscienza rispetto a questa dimensione e al suo possibile accesso per far emergere il significato proprio del dionisiaco nella contemporaneità. Un’analisi meramente conoscitiva di questo concetto, infatti, non sostituisce, né può farlo, l’unicità ed irripetibilità della sua esperienza - la quale, inafferrabile, sfugge ad ogni sforzo, che il sapere compie, di possederla: tutto ciò di cui parleremo non può essere, infatti, che la parte comunicabile di un’esperienza, in ultima istanza, incomunicabile; esperienza che è propria dell’uomo e che rappresenta quanto di più irriducibile al suo concetto possa darsi.
Data questa premessa, non ci resta altro che metterci in cammino per questa, ennesima, improbabile via.
Bologna, estate '22
È vero: ci sono tante citazioni. Ho scritto quasi totalmente in solitudine, ma molte cose mi hanno attraversato. Tante sono invece le persone con le quali ho discusso questa o quella tesi qui esposta, e che dunque sarebbero da ringraziare, specialmente tra i non addetti ai lavori, specialmente tra gli amici. Fra tutti, il mio ringraziamento maggiore va a Manlio Iofrida, che ha seguito lo sviluppo di questo studio fin dall’inizio e le cui osservazioni puntuali e i preziosi consigli hanno contribuito non poco ad arricchire queste pagine. Vorrei dedicare questo lavoro a tutti coloro che sentono davvero, nel loro profondo, d’essere povera cosa: a coloro che provano intensamente il «disagio di non esserci» e l’esigenza imperiosa, irrefrenabile ed assoluta di comunicarlo.
1 S. Poli (a cura di), Inni Omerici, UTET, 2010, p. 287, vv. 58-59.