Il controllo sociale in tempo di populismo
Vincenzo Scalia

07-05.2022

Questo contributo propone una riflessione sul controllo sociale e sulle sue trasformazioni in epoca populista. Stanley Cohen (1985), definisce il controllo sociale come l’insieme degli strumenti e delle pratiche che una società mette in atto nei confronti degli individui e dei gruppi sociali devianti. La definizione di Cohen si sviluppa dal punto di vista del potere, in quanto lo studioso sudafricano evidenzia l’eterogenesi dei fini interna ai meccanismi di diversione del sistema penale. Non soltanto gli operatori del sociale, come educatori, assistenti sociali, psicologi, si nutrono dei depositi di potere, ovvero dell’ideologia contenitiva connaturata agli apparati statali.

La loro prassi di “comprensione” e “assistenza”, in una società frammentata esclusiva, produce sia un’adesione formale degli individui a rischio monitorati, sia un’estensione della rete del controllo. In altre parole, un assistente sociale che segue un caso “a rischio”, in un quartiere marginale, finisce per attenzionare altri casi e a sollecitare l’intervento dei colleghi, riproducendo la rete del controllo.

A partire dalla definizione di Cohen è possibile sviluppare una riflessione più articolata sul controllo sociale. Ogni società si fonda sulla costruzione di una linea di demarcazione tra normalità e devianza, tra inclusi ed esclusi. Per questo motivo, spiega Emile Durkheim (2000), la criminalità rappresenta un fatto normale di ogni aggregato sovraindividuale.

Ci troviamo di fronte a veri e propri processi di “produzione della criminalità” (Pavarini, 1998), con gli attori del controllo sociale pronti a selezionare i soggetti e i gruppi devianti tra gli strati marginali della società. Non si tratta soltanto di attori che operano a livello formale, come gli apparati di stato e le famiglie, ma anche dei titolari del patrimonio normativo di una società, come le confessioni religiose, i gruppi dei pari, le classi sociali, e altri tipi di relazioni sociali di prossimità. Si tratta di un controllo sociale orizzontale, di tipo relazionale, che si sovrappone a quello verticale, di impronta autoritativa, esercitato dalle agenzie statuali (Althusser, 1973).

Gli apparati e le pratiche di controllo sociale non esercitano sempre una funzione negativa. E’ anche grazie alla loro esistenza che si sviluppano le subculture e le identità di classe, col conseguente formarsi e diffondersi di un nucleo di valori alternativi a quelli dominanti.

E’ stato così nella società industriale, con la cultura operaia, fino al diffondersi della cultura di massa, costituire da argine e da produttrice di alterità rispetto alle pratiche di dominazione del capitalismo (Thompson, 1963). La crisi della società industriale, la ristrutturazione capitalista che definiamo come post-fordismo (Zanini-Fadini, 2001), a fianco della scomposizione delle figure sociali in conseguenza della riconfigurazione degli assetti produttivi, investe anche la sfera del controllo sociale.

Ci troviamo all’interno di una società frammentata, votata più alla gestione dei rischi del presente (Beck, 1986) che alla costruzione di una prospettiva di trasformazione collettiva a lungo termine. La caducità delle identità, dei ruoli, degli status (Baumann, 1999), da un lato catalizza la diffusione delle identità particolari, dall’altro sfocia in una voglia di comunità (Baumann, 2006) che si concreta nella ricerca e nella punizione del capro espiatorio di turno come ultima risorsa per la declinazione di una dimensione collettiva.

Lavoro, residenza, partner, amicizie, orientamento sessuale, mutano costantemente. Il rovescio della medaglia di questa continua trasformazione è rappresentato dal rischio di imbattersi in minacce potenziali ed effettive all’incolumità personali. L’impronta neoliberista, con l’individualismo come regolatore dei processi economici (Nozick, 1981), finisce per produrre una cultura del sospetto diffusa su tutto il corpo sociale, stimolando sia il formarsi di pratiche di controllo diffuse, sia l’aumento della domanda di penalità per governare i conflitti che attraversano il controllo sociale.

David Lyon (2016), parla di una sorveglianza relazionale, che si sta diffondendo a discapito di quella orizzontale e verticale. Se da un lato è vero che lo Stato e i privati si avvalgono delle nuove tecnologie per invadere in modo sempre più capillare la sfera privata (si pensi ai cookies), dall’altro lato siamo noi stessi, sia quando forniamo i nostri dati sensibili agli attori del cyberspazio, sia quando ci muoviamo per esempio all’interno dei social networks, a fornire informazioni relative al nostro privato, oltre che a esercitare un controllo potenziale ed effettivo sugli altri.

Ci basta visitare, ad esempio, la pagina di Facebook di un nostro interlocutore per farci un’idea della persona con cui abbiamo a che fare. Oppure, come nel caso di Wikileaks, entrare nei siti governativi consente di esercitare un vero e proprio contropotere sui potenti. A volte, addirittura, ci è possibile anche agire da veri e propri censori nei confronti degli altri, diffondendo informazioni che ne possono compromettere la reputazione, o arrivando a diffamarli e a minacciarli come nel caso del cyberbullying e del revenge porn. La sorveglianza relazionale, di questo passo, perde le sue potenzialità democratiche, creando le condizioni per rimettere in gioco la sorveglianza orizzontale, in particolare quella repressiva dello Stato.

L’incertezza, la caducità, la virtualità di identità, progettualità e relazioni, sfociano nel populismo penale, con gli attori della società frammentata che si rivolgono, a vario titolo, agli attori del controllo sociale affinché esercitino le loro prerogative punitive. L’intervento repressivo, al di là della sua efficacia, sortisce un effetto calmierante, cauterizzatore del rischio insito nella società contemporanea, nonché anestetico rispetto alle potenzialità di conflitto che si possono aprire. Non a caso, nelle elezioni del 2018, l’elettorato italiano, stordito dalla crisi economica e dall’erosione delle identità collettive, ha investito di un terzo dei consensi complessivi un partito che fa dell’uso diffuso della risorsa penale la sua bandiera.

La crisi pandemica innescata dal diffondersi del Covid-19, ha provocato un effetto moltiplicatore al controllo sociale populista, in due direzioni. Innanzitutto, nessuno ha messo in discussione la più grande restrizione delle libertà civili messa in atto in Occidente dalla fine della seconda guerra mondiale, dando per scontato che fosse l’unica possibilità di fare fronte all’emergenza sanitaria. In secondo luogo,

il pubblico si è mostrato zelante e collaborativo verso le pratiche repressive messe in atto dal governo, come testimonia l’aumento esponenziale di denunce durante il lockdown nei confronti dei presunti ed effettivi trasgressori degli obblighi restrittivi. Inoltre, nel caso italiano, non dobbiamo dimenticarci che la diffusione del controllo sociale populista è favorita da una cultura dell’emergenza che negli ultimi quarant’anni ha permeato il tessuto sociale: terrorismo, corruzione e criminalità spesso hanno costituito il cavallo di Troia per un riassetto in senso repressivo degli equilibri relativi al controllo sociale.

Concludendo questo excursus, il controllo sociale populista comporta, in ultima analisi, il ritorno dalla finestra della sorveglianza statale a partire dalla giustificazione dell’emergenza. Uno schema antico, ma collaudato ed efficace, che finisce come sempre per penalizzare gli individui e i gruppi sociali più svantaggiati e gli oppositori, come le vicende delle rivolte carcerarie e di Julian Assange ci insegnano.


BIBLIOGRAFIA

Althusser, L. (1973), Lo Stato e i suoi apparati, Roma: Editori Riuniti.

Baumann, Z. (1999), Modernità liquida, Bari: Laterza.

-(2006) La solitudine del cittadino globale, Milano: Feltrinelli.

Beck, U. (1986), La società del rischio, Roma: Carocci.

Cohen, S. (1985), Visions of Social Control, Trenton: Transaction.

Durkheim, E. (2000), La divisione del lavoro sociale, Milano: Comunità.

Lyon, D. (2016), Surveillance after Snowden, London: Routledge.

Nozick, R. (1981), Anarchia, Stato e Utopia, Bologna: Il Mulino.

Pavarini, M. (1998), I nuovi confine della penalità, Bologna: Martina.

Thompson, E.P. (1963), The making of English working class, London: Penguin.

Zanini, A.-Fadini. U. (2001), Lessico pstfordista, Milano: Feltrinelli.