Ifigenia a Kabul
Manlio Iofrida

24.09.2021

Ma davvero il destino della nostra civiltà occidentale, dopo aver conquistato il mondo, è quello di scontrarsi all’infinito con il proprio doppio e di non poter mai venire a patti con la propria ombra? Di ostinarsi a considerare la propria razionalità strumentale e capitalistica e scientifica (un gran valore non solo per l’Occidente, va da sé) come un modo assoluto per affrontare la realtà e l’Altro, al punto che, quando riscontriamo i suoi limiti, noi occidentali ci facciamo prendere da vere e proprie crisi isteriche e, invece di cercare di trattare quel modello come, appunto, un modello e non il tutto, invece di considerarlo uno dei “vari volti della verità” (Gargani) e di meticciarlo, trasformarlo, ibridarlo con altri, ce la prendiamo col mondo, che è così complesso, così “cespuglioso” da non voler rientrare nei nostri limpidi schemi?

Il modo in cui si è accentrata l’attenzione della discussione pubblica di recente su due argomenti– il reddito di cittadinanza (d’ora in poi Rdc) da un lato, l’avvento dei Talebani in Afghanistan dall’altro - sembrerebbe avvalorare questo timore.

A proposito del Rdc, un articolo di Giuliano Ferrara sul Foglio di qualche giorno fa (Dal cespuglioso pasticcio del reddito di cittadinanza non usciremo. Manca la pulsione a fuggire la miseria, ma anche i mezzi per farlo, 9 Settembre 2021) non manca di lucidità e fa emergere alcune questioni molto generali, filosofiche a antropologiche, che sono implicite nel dibattito in proposito, ma, proprio per tale sua lucidità, è un’ottima conferma di come la mentalità neoliberista che è divenuto dogma indiscutibile da quarant’anni porti in un vicolo cieco.

Ferrara sviluppa una sorta di antinomica del Rdc, per cui sarebbe indecidibile la questione se toglierlo o mantenerlo, e sarebbe anche impossibile riformarlo.

Non entro nelle varie argomentazioni empiriche e specifiche che riguardano la questione perché, a mio parere, il motivo di questa impasse è, prima di tutto e fondamentalmente, filosofico-antropologico; intendo dire che sta nelle categorie profonde del discorso di Ferrara: l’accettazione del lavoro si può avere, egli dice, solo se esiste “una pulsione irresistibile all'integrazione e a un'uscita dalla miseria sociale con le proprie forze… […] Quando la pulsione c'era, ed era irresistibile, ondate di emigrati lasciavano il nido, occupavano stamberghe a centinaia o migliaia di chilometri di distanza, affrontavano l'incognito e una misura notevole di sofferenza e isolamento sociale per strappare un salario e sottrarsi alla fame finanziando con le rimesse le famiglie. Lo sradicamento e la lotta per l'esistenza non sono più l’orizzonte di chi vive una sofferenza sociale.”

Ferrara si rende conto, da una parte, che storicamente questo modello feroce non funziona più – un modello che è stato quello della prima rivoluzione industriale in Inghilterra e poi si è ripetuto tante volte fino a ieri (nel leggere queste righe, non si può fare a meno di pensare a Rocco e i suoi fratelli di Visconti); dall’altra parte, questa constatazione non lo induce nemmeno per un momento a porsi qualche interrogativo sulla civiltà borghese e capitalistica: semplicemente, il problema è che “dal cespuglio non si esce”.

Se ne adduce che sradicarsi dalla propria terra, sottoporsi a uno sfruttamento bestiale pur di sopravvivere, combattere una robinsoniana lotta a morte con la natura e con i propri simili è l’unico modo per realizzare la civiltà; o gli uomini sono soggetti al metodo del bastone e della carota o sono destinati a ricadere nell’apatia delle società “primitive”.

Ora, se è vero che il lavoro (e su questo il postmoderno è stata un’ideologia deleteria) è una dimensione fondamentale dell’uomo, l’unico tipo di lavoro concepibile e realizzabile è quello molto prossimo a quello dello schiavo a cui ricorrentemente esso si riduce nel regime capitalistico? Bisogna sradicare, togliere diritti, dare salari di fame, imporre sofferenze infinite in nome del progresso? Solo la dura legge della disuguaglianza può indurre l’uomo a lavorare?

Non possiamo pensare – specie noi europei, che abbiamo un bagaglio di tradizioni storiche e civili più che millenario – che si possa costruire, fra gli uomini e fra loro e la natura, un rapporto un po’ migliore? L’idea di lavoro non include anche la cooperazione, la solidarietà, la creatività, la possibilità di realizzare la propria personalità? E anche la possibilità di realizzare un rapporto meno predatorio verso la natura, di esplicare una produzione che, invece di impattare rovinosamente sul nostro pianeta, permetta di realizzarne le vere potenzialità, il che significherebbe innanzitutto rispettarne i limiti?

Anche se i due argomenti possono sembrare lontani anni-luce, per importanza e geopoliticamente, non posso fare a meno di pensare che quella che si riscontra nell’articolo di Ferrara è la stessa cecità, la stessa incapacità di autoriflessione che gli occidentali hanno dimostrato con la loro sciagurata avventura afghana e che si mostra anche nelle nostre reazioni alla caduta di Kabul: che, la maggior parte delle volte, sono state del tipo: “Vent’anni di sangue, di distruzioni, di enormi sprechi di denaro, ed ora tornano i barbari Talebani! Com’è che le tribù afghane non vogliono arrendersi alla luminosa democrazia occidentale e ai principi illuministici da cui essa è nata?”

Eppure, alla fine, la cultura occidentale e la civiltà occidentale non sono solo questo; e se hanno conquistato il mondo, non lo devono solo al proprio cieco modello di una razionalità autospecchiantesi, ma al fatto che essa ha avuto a suo complemento un pensiero critico che indicava all’Occidente (e al mondo) anche altre strade.

Cercherò di dare appena qualche cenno in proposito (gli esempi e i modelli sono vari e numerosi), richiamando insieme la lezione di Goethe e il modo con cui Adorno l’ha ripresa e sviluppata nel ‘900.

Facciamo un balzo indietro al 1787, alle soglie della grande e bisecolare vicenda aperta dalla rivoluzione francese e da quella industriale: in quell’anno Goethe, che, diversi anni prima, aveva già composto, in forma prosastica, l’ Ifigenia in Tauride, riprendendo da Euripide il mito di Ifigenia, riscrive in versi la versione definitiva della sua opera.

È singolare come i recenti eventi afghani abbiano dato nuova attualità al dramma goethiano; la Tauride era infatti, per i Greci, proprio ciò che è per noi oggi l’ Afghanistan: una terra di barbari, in cui si praticavano ancora i sacrifici umani; con la sua presenza Ifigenia, rappresentante dell’umanità e della razionalità occidentale, riesce a convincere il re Toante a interromperli, ma lo sviluppo degli eventi pone anche lei davanti a un’antinomia: per procurarsi il bene prezioso della libertà dovrebbe, fuggendo di soppiatto e rubando il sacro simulacro di Diana, praticare l’inganno, tradendo l’ideale, altrettanto irrinunciabile, del tener fede alla verità; se dirà la verità a Toante, metterà a rischio la libertà.

Dopo ovvie esitazioni la scelta di Ifigenia – scelta squisitamente femminile e consapevolmente rivendicata come tale, in contraddizione con quello che i personaggi maschi le consigliano – sarà di obbedire al principio secondo cui il barbaro non deve essere ingannato : il fatto che egli pratichi usi disumani non autorizza i rappresentanti della razionalità e dell’umanità progredita a trattarlo non come un soggetto, ma come un oggetto, a farne, invece che un fine, un mezzo.

In sostanza, la lezione di Goethe è che a confronto sono non la razionalità e la barbarie, ma due barbarie e due violenze speculari: poiché la razionalità illuministica, nel contrapporsi assolutamente all’animalità, al mito e alla natura, è altrettanto violenta di colui che compie sacrifici umani; se i barbari Tauri avevano orrende usanze, anche i Greci non erano l’umanità compiuta e avevano le loro colpe da scontare, le loro violenze e astuzie da farsi perdonare; la loro luminosa ragione aveva i suoi punti ciechi.

Commenta Adorno nel suo grande saggio dedicato al dramma di Goethe (Th. W. Adorno, Sul classicismo dell’Ifigenia di Goethe, in Id., Note per la letteratura 1961-1968, tr. it. Einaudi, Torino 1979, pp. 173 e sgg.): “La conciliazione [fra civiltà e natura, fra umanità e razionalità progredita e umanità e mentalità primitiva] non è nuda antitesi al mito ma comprensione nei confronti di questo” (p. 190). Allargare all’infinito la contrapposizione fra razionalità e natura, fra scienza e mito crea una situazione senza vie di uscita; “la speranza – continua Adorno - […] sarebbe che impallidisca la violenza del progresso, nella quale l’illuminismo si mimetizza nel mito […] speranza è l’acquetamento della natura, non l’ottuso dominio su di essa, il quale perpetua il dominio” (ibidem). 

Questo porsi dei limiti significa, da parte dell’umanità civile, regredire alla barbarie, cancellare in toto se stessa e i risultati della propria razionalità?

Assolutamente no, tanto è vero che Adorno parla non di abolirla, ma di “mettere un freno” ad essa; e, ancora di più, egli dice esplicitamente che non sarebbe possibile questo progetto di riconciliazione se non ci fosse stato il dispiegamento della razionalità e della civiltà occidentale e industriale: “La speranza mette un freno al fare, al produrre, senza cui tuttavia essa non sarebbe (corsivo mio)”.

Il programma di ciò che Adorno chiama “speranza” non significa rinunciare all’illuminismo, ma allargare e arricchire la ragione illuministica, far sì che “l’illuminismo riflett[a] su se stesso” (p. 191), far sì che animalità, natura, culture altre non siano più subordinate in un’inclusione che le riduce all’identico, ma lasciate essere in un’alterità che può comportare, col dialogo, anche uno sviluppo e un avvicinamento ai principi occidentali (e viceversa).

È questa la lezione non del Goethe del Faust, “ fino alla fine [...] complice del dominio sulla natura”, ma di “un Goethe passivo, non più disposto a quell’azione che lì [nel Faust] doveva essere in principio, primum e non ultima cosa” (p. 191).

Certo, da tutto ciò non scaturisce un programma preciso su cosa fare nell’immediato sul Rdc e sull’Afghanistan; ma il fatto che nella tradizione occidentale da due secoli e più ci fosse l’invito a pensare se stessa, la propria avventura e il mondo al di fuori di sé in un modo così diverso da quello che a tutt’oggi risulta ancora largamente dominante, ci dà forse qualche speranza, nel quadro un po’ mesto, se non fosco, dell’ attuale politica nazionale e internazionale, che la storia possa prendere anche altre direzioni: che in essa siano ancora aperte quelle prospettive di redenzione a cui Adorno, Benjamin, Bloch, ma anche Eric Auerbach hanno guardato nel secolo scorso.