Iconoclastia. Un caso trascurato di guerra mai finita
Enrico Camprini
Berislav Šerbetić e Vojin Bakić, Monumento all'insurrezione del popolo di Kordun e Banija, 1979–81. Petrova Gora, Croazia, Photo credit Sandor Bordas

05.03.2022

Negli ultimi anni, specialmente dal 2020, si è tornati a riflettere sulla questione dell’iconoclastia. Non solo nell’ambito di studi accademici, ma anche nel contesto più ampio della cosiddetta sfera pubblica non sono mancate occasioni per affrontare il tema. Occasioni, spesso, sprecate, vista la generale tendenza a creare polarizzazioni ed emettere giudizi sommari tipica dei media (soprattutto di quelli nostrani).

Non si può però negare, ovviamente, l’ampio spazio dedicato alle vicende storicamente e teoricamente fondamentali innescate dall’omicidio di George Floyd a Minneapolis due anni fa. In questo ritorno di fiamma dell’iconoclastia fa allora specie – non fosse per un ottimo articolo uscito sul Domani (https://www.editorialedomani.it/politica/europa/in-croazia-si-abbattono-le-statue-per-rimuovere-il-passato-antifascista-dfvfan9d) lo scorso gennaio – la relativa mancanza di attenzione verso fatti come quelli avvenuti, e tuttora in corso, in Croazia. Non si tratta infatti di episodi sporadici di distruzione, o semplice messa in discussione, di monumenti sull’onda di movimenti di protesta e di una particolare congiuntura storica. Si tratta invece di interventi “programmatici”, non particolarmente distanti da ciò che si può definire agenda politica.

Come riporta l’articolo citato, da ormai trent’anni è in corso in Croazia un processo di rimozione di monumenti antifascisti e più in generale un tentativo di cancellazione di un’eredità artistica, simbolica e materiale postbellica.

Già nel 1992, appena dopo la proclamazione dell’indipendenza croata, fu fatta esplodere la statua di Stjepan Filipović, partigiano impiccato dai nazisti nel 1942, celebre per l’immagine che lo ritrae a pugni alzati poco prima di morire pronunciando le parole: «Morte al fascismo, libertà al popolo!». È il primo di una lunga serie di distruzioni di monumenti legati alla storia dell’antifascismo croato, sull’onda di un rinnovato e vigoroso spirito nazionalista spesso legittimato anche in chiave istituzionale. È il caso di uno degli ultimi episodi iconoclastici, avvenuto nel 2020 a Zara, con la scelta di rimuovere dalla città un’opera, tra l’altro un bene Unesco, di ispirazione antifascista.

Non si tratta, in più, “solamente” di azioni contro determinate figure legate alla resistenza e alla loro celebrazione, ma anche a monumenti celebrativi della caduta dei fascismi e al tempo stesso legati allo sviluppo di ricerche artistiche di valore nella Croazia postbellica. In questo senso alle proteste di politici e militanti si uniscono quelle di storici dell’arte consapevoli di come a un simile processo di rimozione corrisponda il disconoscimento di opere e carriere di grande importanza culturale oltre che politica.

È il caso delle grandi sculture di Vojin Bakić: il suo Monumento del popolo-eroe della Slavonia fu fatto saltare in aria negli anni Novanta, un’opera architettonica a Petrova Gora, invece, è deliberatamente lasciata a un sostanziale stato di incuria e porta i segni di anni di danneggiamenti.

Philippe Galle, da Maarten Van Heemskerck, La distruzione del tempio di Bel, 1565, particolare © The Trustees of the British Museum

Ora, riflettere su quanto sia accaduto e accade tuttora in Croazia è certo doveroso per essere coscienti di una situazione contestualmente critica, ma mi invita giocoforza a prendere in considerazione la questione dell’iconoclastia nel suo complesso.

A sua volta però, riflettere sull’iconoclastia comporta la consapevolezza della necessità di un bilanciamento, di una via di mezzo, tra meccanismi generali interni al rapporto tra immagini e sfera pubblica (intesa come sintesi tra reazione dello spettatore-soggetto e attribuzioni collettive di significato) e contestualizzazioni storicamente e culturalmente specifiche.

Vorrei limitarmi a poche osservazioni, a partire da un’unica constatazione: le immagini, siano esse artistiche o meno, ci impongono alcune condizioni, esercitano su di noi un potere e si comportano come agenti sociali; allo stesso tempo, la stessa efficacia e persuasività possono essere rese strumento politico decisivo.

Nulla di nuovo: è quanto ci mostra la storia delle iconoclastie. Dalla crisi di Bisanzio dell’VIII secolo a Black Lives Matter possiamo parlare di contese innescate da immagini e combattute per mezzo di immagini. Ci sono connessioni profonde tra iconoclastie molto distanti fra loro per contesto storico e natura (teologica, politica, artistica).

Seguendo un approccio, più o meno, antropologico come è stato tentato in decenni di studi visuali, l’attacco all’immagine-oggetto viene esaminato dando priorità alla sua natura analogica, all’evidenza della consuetudine di mettere sullo stesso piano immagine e corpo. Chiaramente la figura umana è centrale, in forma di statua e monumento la cui persuasività stimola l’iconoclasta a colpirlo proprio come farebbe se si trattasse di una figura viva.

Qui emergono le continuità formali, e assolutamente fondamentali, tra iconoclastie politiche e religiose, tra gesti individuali fuori controllo e attacchi iconici premeditati. Nella storia delle immagini e dei loro conflitti, una statua di un santo accecata da un ugonotto dialoga con la decapitazione di quella di Edward Colston due anni fa a Bristol; la figura di un giovane che urina sulla testa di un idolo pagano in un’incisione da Maarten Van Heemskerck con quella di un uomo che fa esattamente lo stesso col volto di una statua di Saddam Hussein nel 2003.

Questa continuità nelle pratiche messa in evidenza, ad esempio, da David Freedberg (Iconoclasm, The University of Chicago Press, 2021) si perpetua in contesti assai diversi, ma ovviamente non può bastare – e anzi rischia di ridurre l’iconoclastia a un certo psicologismo – se non è accompagnata da un’analisi sul versante simbolico. Cioè sulle implicazioni politiche assunte dalle immagini, su quale visione del mondo si accompagna alla loro distruzione o salvaguardia.

Siamo al cuore dell’iconoclastia di stampo politico, di cui quello croato è ovvio esempio. Come collocarlo? Come – a parte per la generale tendenza a rendere l’immagine corpo – si inserisce nella storia delle iconoclastie? A questo proposito, nonostante i tanti importanti spunti teorici recenti in merito, mi torna in mente una distinzione, in verità piuttosto semplice, formulata da Martin Warnke negli anni Settanta.

Lo storico dell’arte parla di iconoclastia “dall’alto” e iconoclastia “dal basso”, intendendo, nel primo caso, quella messa in pratica da chi detiene una posizione di potere da cui cancellare simboli e immagini sostituendoli con nuovi, cosa che invece non accade nel secondo caso (M. Warnke, a cura di, Bildersturm. Die Zerstörung des Kunstwerks, Berlin, 1973). Questa distinzione è connaturata alla storia dell’iconoclastia di tipo politico, specie nei suoi esempi più celebri – Rivoluzione francese e Rivoluzione d’Ottobre – e mostra quanto le immagini, i monumenti nello specifico, siano agenti sociali a più livelli.

Come bersagli simbolici vivi, parte attiva della contesa, la cui eliminazione è elemento centrale del momento rivoluzionario e della costruzione di un mondo a venire; ma anche, ad un tempo, come strumenti di potere e dispositivi strategici. Infatti, le due rivoluzioni lo testimoniano, spesso le iconoclastie di natura prettamente politica tendono a combinare una duplice azione “dal basso” e “dall’alto”, momenti di spontanea guerriglia iconica e momenti in cui, invece, il rapporto con le immagini si istituzionalizza e si normativizza.

Si potrebbe affermare, come fa Warnke, che l’iconoclastia, nella sua definizione più compiuta, sia una pratica ad appannaggio dei “vincitori”. Affermazione non necessariamente negativa, se si pensa alle spinte innovatrici che l’azione combinata “dall’alto” e “dal basso” può apportare al regime delle immagini. Basti pensare ai tentativi comuni alle rivoluzioni francese e russa che conservavano parte del patrimonio qualitativamente notevole su cui la nuova società si innestava, senza lasciare totalmente campo a una sostituzione integrale di immagini e simboli.

Tuttavia, accade anche che il bilanciamento della duplice natura dell’azione iconoclastica penda troppo verso spinte reazionarie. È il caso della situazione in Croazia, che della storia delle iconoclastie politiche è a pieno titolo un episodio organico e coerente. Leggendone le notizie ho ripensato a casi celebri di distruzione di monumenti dopo la caduta del muro di Berlino, i quali vennero sostituiti con quelli rimossi dopo il 1917.

Per quanto questa dinamica sia una costante, il caso croato non può lasciare indifferenti e non destare preoccupazione: il palesarsi in modo così dirompente di una dinamica normativa, “dall’alto”, che vede la riabilitazione di figure e motivi fascisti e nazionalisti, assume i connotati, lo ripeto, di agenda politica. Che queste operazioni siano più o meno alla luce del sole, resta sempre l’incerta risposta delle istituzioni a livello sovranazionale e, anzi, la risoluzione del Parlamento Europeo che nel 2019 ha equiparato nazismo e comunismo ha contribuito a gettare benzina sul fuoco.

Verrebbe, insomma, da chiedersi chi siano i “vincitori”. E, data la storia delle iconoclastie, purtroppo verrebbe la tentazione di rispondere: i nazionalisti croati. È di certo importante tenere alta l’attenzione sulle vicende in corso, memori non solo del rapporto tra immagini e politica nel passato, ma anche degli esempi più attuali, e mi riferisco ovviamente al movimento Black Lives Matter. In quel caso, inevitabilmente e giustamente, la copertura mediatica fu enorme e la risonanza considerevole.

Si è trattato di iconoclastia prevalentemente “dal basso”, segnando un paradigma forse nuovo per tali episodi, spesso liquidato giornalisticamente in modo semplicistico, alla stregua di un delirio vandalico. Sarebbe opportuno dedicare spazio e dibattito anche a una forma di iconoclastia ben consolidata, e pericolosa, come quella che ha preso piede in Croazia.

Non resta che attendere, nella consapevolezza che oggi come secoli fa le immagini e il loro dispiegamento collettivo giocano un ruolo decisivo, ancora, nell’orizzonte globale delle vicende politiche e sociali.