I morti viventi: oggi
Ubaldo Fadini

25.04.2021

Mi capita di sentire spesso esclamare “siamo più morti che vivi!”, quasi a segnalare come i processi di negazione della storia o di ripresa di protagonismo del naturale, che rifà storia, siano sempre di più sotto gli occhi di tutti e particolarmente e crudamente avvertiti, in “tempi” di pandemia. Si tratta in effetti di un modo di registrare complessivamente e in termini di “battuta” disincantata la perdita di “valore” subita dall'agente umano nel momento in cui si può affermare che è più facile pensare la fine del capitalismo che la fine della natura, per riprendere – torcendola un po', quasi rovesciandola – la celebre formula di Mark Fisher, di ciò che riconduce la nostra vicenda di vita a un piano parzialmente e inevitabilmente incognito.

Nel suo Imperfezione. Una storia naturale, Telmo Pievani ha rilevato, tra l'altro, l'importanza del caso nel momento in cui si fanno i conti proprio con l'imperfezione/perfezione in natura e questo mi sembra da richiamare anche e soprattutto in relazione ad una immagine dell'essere umano che lo presenta come una sorta di “condominio affollato che ospita miliardi di microbi, in equilibro
instabile”. E l'instabilità/imperfezione della natura restituisce alcuni di questi microbi come dei simbionti (hanno bisogno di noi per vivere così come noi abbiamo bisogno di loro); altri ancora ci utilizzano senza farci troppo male (i “parassiti innocui o commensali”), altri ancora invece ci colpiscono, ci infettano e ci fanno ammalare (sono quelli patogeni); ce ne sono pure di differenti, che inizialmente sono innocui e poi diventano patogeni, per non dimenticare infine quelli di cui non sappiamo niente... insomma, come evidenzia Pievani, non siamo mai soli, siamo tanti, siamo “olobionti”.

Quando leggo questo genere di testi, mi viene sempre in mente l'affermazione di Francis Scott Fitzgerald: “Ogni vita è ben inteso un processo di demolizione”, cara a molti studiosi, da Gilles Deleuze e Félix Guattari a Georges Canguilhem, tra gli altri. Appunto Canguilhem: c'è uno studioso, Pierre Macherey, che riprende il noto lavoro di Canguilhem del ’43, Saggio su alcuni problemi concernenti il normale e il patologico, suggerendo che sia stata poi la pubblicazione dello studio foucaultiano sulla Nascita della clinica (1963), ospitato nella collana diretta da Canguilhem per le edizioni PUF, ad aver in parte stimolato le Nuove riflessioni concernenti il normale e il patologico, che lo stesso Canguilhem aggiungerà al testo del ‘43 per la sua riedizione del ‘66.

Dello studio foucaultiano viene apprezzata e ripresa l'idea che la morte – e con essa la vita – possa valere come potere di “schiarimento” rispetto a tutto ciò che si articola come organismo e che nell’organismo trova modi decisivi, pure con difficoltà, di scorrimento, di una qualche prosecuzione. Foucault si presenta così, con il suo testo del ‘63, come colui che ha visto con acutezza “il legame fondamentale tra la vita e la morte”, facendo sì che il “vitalismo” si coniughi in una qualche maniera con un cosiddetto “mortalismo”.

È in tale prospettiva che si può apprezzare lo sforzo foucaultiano di delineare una “estetica dell'esistenza” basata anche sul chiarimento riguardante l’effettiva importanza di nozioni come quelle di salute e di normalità: un'arte di vivere che comprende la possibilità di giocare – e di prendere un po' in giro – le norme a cui si affida il compito del buon indirizzo dell'esistere, norme che vanno un po' strapazzate per vedere se così (mal) funzionando possano aprire ulteriori e differenti margini di iniziativa “libera”.

Tale arte di vivere presuppone, da parte di colui che la esercita, che si sappia mortale e che impari anche a “morire” per vivere meglio le sue variazioni, le interruzioni e le “rotture”, la sua parzialità di fondo. E' quello però di fronte a cui ci si ostina a resistere non mettendo effettivamente a valore questa nostra disposizione, non coltivando fino in fondo la consapevolezza del nostro essere oggi soprattutto tecno-olobionti, per così dire, costringendoci nella formula tutt'altro che stravagante perché indubbiamente mortificante del “capitale umano” o alle molteplici altre che pretendono di eternizzare – contro la natura che fa storia (insieme ad altro..., suggeriscono ironicamente i nostri “classici” di riferimento: a partire da Marx) – un quadro d'epoca ben determinato e come tale in via di “demolizione”, per riprendere, scherzando, Fitzgerald.

“Capitale umano”: figura stilizzata di un rapporto tra il “morto” e il “vivo” che fissa una dipendenza per alcuni (non per i “molti”) indispensabile: del lavoro appunto “vivo” a quello passato, “morto”, sotto veste di capitale, alla ricerca incessante, come morto vivente, di ulteriori condizioni di rilancio dell'unico istinto avvertito e quindi dominante: quello che sta alla base di una sopravvivenza “selvaggia”, che ha perso la relazione con gli altri, trasformandosi così in una forza soltanto distruttiva e quindi auto-distruttiva (Theodor W. Adorno).

La contingenza che stiamo oggi “vivendo” è forse da intendersi – è possibile piegarla in tale direzione: si tratta di una scommessa...– come una crisi di tale sopravvivenza “selvaggia”, da cui si può pretendere di uscirne con un trattamento diverso, con una “politica” più favorevole per tutti, del “legame fondamentale tra la vita e la morte”, tra sviluppi auspicati e indispensabili interruzioni.