I mille corpi di Buddha
Igor Pelgreffi

07.05.2023

Il testo che segue è la Prefazione di Igor Pelgreffi al volume di Giovanni Nubile, I mille corpi del Buddha. Soggettività, gesto e azione rituale in un monastero zen italiano, edito da Kaiak Edizioni.


Prefazione

La pratica della ripetizione, i corpi, la scrittura.

Per un’extraduzione


Il libro di Giovanni Nubile, I mille corpi di Buddha. Soggettività, gesto e azione rituale in un monastero zen italiano, propone una riflessione, tra antropologia e filosofia, intorno alle pratiche zen, al loro “senso”, ai rapporti tra meditazione ed esercizio rituale. Cioè ai rapporti, anche, tra mente e corpo: tra parola e silenzio. Il lettore, nella bella introduzione dell’autore, ne troverà enucleati i temi maggiori. Qui di seguito mi limiterò ad alcuni appunti di lettura, molto parziali, che vorrebbero solamente mostrare in che senso questo libro sollevi diverse questioni teoriche, che sono rilevanti sia “in sé” che in relazione al dibattito filosofico attuale.

Prima questione: il tema dell’apprendimento e della ripetizione. Si apprende, certamente, ripetendo il gesto; si ripete e, nel contempo, si costruisce il gesto: si elabora quindi una forma “a venire” sulla mobile base della memoria. E, così facendo, il passato prefigura il futuro: tema di per sé teorico, ma anche politico. Ma – congiuntamente – si apprende anche a divergere da una ripetizione soltanto identica o meccanica, acquisendo gradualmente, cioè nella continuità operativa di elementi attivi ed elementi passivi, una crescente consapevolezza corporea, prima ancora che razionale, della propria azione. Il tema di un apprendere a ripetere che è anche un apprendere nel ripetere, non è soltanto tipico degli scenari zen o della filosofia pratica: esso, nella sua struttura formale, accomuna anche molte dinamiche generali del nostro mondo storico-sociale. Il problema dell’apprendimento è oggi una questione primaria, non solo nei contesti educativi: come acquisiamo i nostri schemi comportamentali, all’interno di un ambiente di vita così fortemente attraversato dal digitale, nel senso del nostro abitare nella cosiddetta infosfera (Floridi)? Come ci muoviamo nel “mondo”, cioè con quali “algoritmi procedurali”, con quali habitus appresi, con quali automatismi indotti e sempre più user friendly? E quanta parte ha la ripetizione nel potere di incorporazione di tutto questo, che poi determina, sovente al di sotto del controllo cosciente, il nostro agire individuale o collettivo? Come noto, esiste una linea di riflessione intorno all’automaticità indotta – lascito testamentario del concetto di eterodirezione francofortese –, agli effetti generali di una società automatica (Stiegler) o anche di una sorta di potenza invisibile degli algoritmi appresi silenziosamente (come lo è per una regola o per un rituale…), che si connette strettamente a forme di condizionamento/sfruttamento divenute oggi sempre più raffinate.

Ora, su tutto questo, la prospettiva di Nubile risulta particolarmente spendibile, nel suo orbitare attorno al fuoco di un apprendimento più consapevole, non banalmente auto-imposto dal Soggetto, ma per così dire acquisito tramite la dimensione di una ripetizione rituale, dunque nel perimetro di una dimensione pratico-corporea differente e che solo in apparenza fa segno a un’auto-alienazione come allontanamento dal mondo: vi rientra, in realtà, secondo altri sentieri che sono sentieri prelogici, procedurali nel senso appunto della centralità degli schemi corporei e delle abitudini. Certo: si tratta di una dimensione molto diversa, forse incompatibile o irriducibile alle pratiche consuete “occidentali” o, quantomeno, poco praticabile su una scala sufficientemente ampia da poter permettere un pensiero della trasformazione sociale. Ciò nonostante, con qualche cautela possiamo estrapolare elementi che dimostrano invece come questa dimensione si inserisca pienamente nel dibattito odierno filosofico e politico.

Si pensi, per esempio, al tema del corpo-che-apprende la ripetizione, nel suo essere sinolo di facilità alla ripetizione e resistenza alla ripetizione. Di qui, si rifletta sul senso e sul valore del gesto ripetuto, della fatica muscolare e neuronale, dunque psico-fisica, cioè della resistenza ad assumere forme di passivizzazione e in generale, dell’attrito che in questi ambiti accompagna ogni forma di (apparente) conatus, di tendenza irriflessa automatica del moto, nella sua ripetizione sempre uguale a se stesso. Attrito significa che l’inerzia assoluta è impossibile: il corpo respinge (è la sua “natura”) l’addomesticamento addestrante, che purtuttavia è anche in grado di accogliere (ed anche questa è la sua “natura”). Che il corpo reagisca non significa che non subirà mai gli effetti dell’addomesticamento; soltanto, li ritarderà, all’infinto, li lascerà penetrare al prossimo giro, alla prossima figura di ripetizione che, resistendo, andrà a incorporarsi “in noi”. Solo la resistenza sussunta nel conatus, nella riproduzione del movimento sempre uguale, consentirà, domani, l’awareness e, eventualmente, una forma di dissenso corporalmente significante, cioè non “fine a se stesso”. E potrei proseguire, dicendo altrimenti quanto ho già detto, con il tema della disciplina. L’acquisizione volontaria di una disciplina, di un’auto-limitazione che diverrà però anche potenza del corpo, comporta la liberazione di energie che rimarrebbero altrimenti confinate: forze altrimenti disciplinate. E si pensi qui, allora, alla complessità teorica dell’asse disciplina-disciplinamento-dispositivo, così importante nel pensiero di Foucault appunto sulla de-soggettivazione e ri-soggettivazione come sottrazione al potere. Il libro di Nubile ci parla, cioè, del problema di dove sia il soggetto all’interno di un processo di Learning, ovvero in che misura esso sia prima e in che misura esso emerga dopo, o durante, l’esercizio.

È un libro di ricerca su questo tipo di “sistema metrico”, cioè di riflessione sulla “misura”: quando esattamente un soggetto incomincia a soggettivare, a secernere soggettività? Reversibilmente: quando accade che un atto ripetuto si distacchi dall’immanenza di una corporeità che, nel rituale, si trova naturalmente auto-disposta all’automatismo, inteso quale “minimo di energia potenziale” dell’atto stesso?

Ci troviamo allora di fronte a una fra le macro-questioni che ci sollecitano oggigiorno, e che ha attraversato larga parte della riflessione del Novecento: la questione della tecnica. La tecnica è fortemente legata al concetto di ripetizione o di protocollo, ma anche a quello di invenzione, ed è in questo “doppio” che il gesto ripetuto costruisce l’umano: il riferimento, anche diretto da parte di Nubile, è alle tecniche del corpo, cioè in fondo all’antropotecnica di Marcel Mauss e ad altre linee di antropologia del Novecento da questa derivata. Troviamo quindi, in controluce alle analisi dell’esperienza interna a un monastero zen, molto puntuali e prolungate, un discorso che va oltre il suo stesso campo d’applicazione, indagando implicitamente il profilo ormai epocale di una automaticità e tecnicità del vivente in generale, sia individuale che sociale.

Seconda questione. Dovrebbe essere già evidente, da quanto ho appena scritto, la centralità della nozione di corpo nel ragionamento complessivo di Nubile. Ma qui si introduce un elemento ulteriore: non c’è un corpo, ma vi sono molti corpi. Questa idea deriva dalla rilevazione (che le pratiche di esercizio-apprendimento zen rivelerebbero) di un’insufficienza del modello ingenuo di “corpo” individuale. Quella del corpo singolare è la dimensione “ovvia”, quasi “banale” o “bassa”, nel senso di un degré zéro o di una bêtise del corpo (il che non va inteso secondo un’accezione negativa: tutt’altro…) che permane nel tempo, che alberga nel fondo dell’essere e va a irrorare tutte le altre. Ma, sin dall’origine, ad essa va associata quella di un corpo comunitario (cioè l’insieme dei corpi con-viventi nel monastero; ma Nubile si spinge a considerare anche il rapporto tra umani e non-umani), e di qui quella di corpo-sociale, in una prospettiva forse di corpo-politico, per giungere ad altre sfere via via più ampie, come quella del corpo architettonico, espressione che non è nell’ordine del metaforico, bensì nell’ordine di una concreta modalità storico-estensiva co-originaria ai corpi, come per il ruolo giocato dal villaggio o dall’ambiente, in senso lato.

Ora non posso entrare nel merito dell’analisi di tali distinzioni; mi interessa mostrare quale sia, o possa essere, la pregnanza teorica contenuta nel concetto di molteplicità estensiva dei corpi. Qui effettivamente si tocca, nel quadro dei rapporti tra natura e cultura, uno dei grandi temi della filosofia occidentale, e precisamente il problema dei modelli e dei modi in cui la filosofia stessa ha pensato il corpo. Detto brevemente: oggi il problema è quello di tentare di pensare come riflessi di una realtà unitaria queste visioni del corpo (singolare; intersoggettiva; ambientale), visioni spesso concepite, su un piano ontologico, tra loro separate. Si registra ancora, cioè, la tendenza a ragionare come se vi fosse da una parte un corpo che apprende nell’alveo del singolare (introflesso), da un’altra parte un corpo che apprende nel livello sociale (estroflesso), che appunto non è già più – forse non è lo è mai stato – quello singolare, e ancora (come peraltro, a volte pare affiorare nelle pagine di questo libro) un ulteriore livello: una sorta di corporeità estesa, quasi mistica nei suoi esiti (o premesse?), vale a dire quasi-immanente. In questo, i modelli teorici ed epistemologici su cui fa leva Nubile sono consistenti, e spaziano dalle punte più avanzate di una certa antropologia di spessore filosofico (tra gli altri, Viveiros de Castro o Ingold), lasciandosi però ispirare ugualmente da grandi autori della filosofia, certo, più “tra le righe” che non citati espressamente.

Penso solo a Spinoza, alla sua concezione di corpo come elemento di immanenza che permane, tuttavia, in un costante rapporto “di sforzo” con tutti gli altri corpi e dove quindi l’interazione tra corpi e la resistenza fisica (tornando al tema dell’attrito/fatica nell’apprendimento) fanno parte di un’unica realtà. E si potrebbero evocare anche altri modelli di corporeità, come quello di Merleau-Ponty e, qui, il valore ontologicamente fondamentale dell’ambiguità tra attività e passività del gesto corporeo, o anche alla sua importante nozione, talvolta trascurata, di intercorporeità. In tutto ciò, le analisi di Nubile ci spingono, sia pure in forma indiretta, a riconsiderare profondamente il “nostro” rapporto con la corporeità: una corporeità che “prende forma” ma anche capace di “perdere forma”, che, insomma, muta la sua forma mentre si forma. Un concetto di corpo per nulla statico, bensì caratterizzato da un continuo divenire morfogenetico, modello che ci costringe a riflettere sul “nostro” rapporto con l’Oriente, in quanto si tratta qui di una evidente alternativa metodologica nel pensare la metamorfosi. L’informe è comunque corporeità, e non è il nulla: l’informe è “non-ancora” forma e non l’esterno vuoto del corpo. L’Oriente non è, parimenti, il totalmente altro dall’Occidente: in Nubile non risulta mai un completo abbandono della pratica razionale (al contrario, emergono per così dire forme di razionalità corporea), dunque nel vizio di una Gelassenheit vagamente heideggeriana che finirebbe forse per diluire ed esaurire l’Occidente in favore dell’Oriente.

Mi pare cioè, proprio grazie alla presenza dell’elemento concreto-antropologico, che si prospetti l’idea – per restare sul motivo morfògeno – di un Occidente che si riforma nella relazione con l’Oriente. Un Occidente che si ri-forma: che forma nuovamente se stesso e che si rinnova, forse, modificandosi entro una dimensione ibrida, senza esito garantito, ma estremamente utile oggi, in epoca ad esempio di ricerca ecologica, di nuovi equilibri da riscrivere o da inventare, di ricerca di “altri” moventi per una filosofia critica. E questo per la “ragione” (ma di che ragione si tratta qui?) che nel frequentare questa dimensione latu sensu orientale, si evidenzia il ruolo anche occidentale nel problema della ripetizione: nel problema, potremmo dire, della compulsione a ripetere l’occidente da parte dell’occidente stesso.

Ultimo punto. Metodologicamente, lo studio di Nubile esibisce una natura auto-riflessiva. È scritto come ricostruzione di un’esperienza di pratica e di osservazione: la componente scientifica è dunque integrata in quella soggettiva? Quel che possiamo dire, è che l’apparato conoscitivo organizza l’oggetto, lo pre-forma indubbiamente garantendo la modalità scientifica (il lettore apprezzerà nondimeno una bibliografia considerevole, oltre che estesa e aggiornata); ma, al contempo, la conoscenza oggettiva si ri-forma lungo l’incerto crinale dell’esperienza soggettiva. Pagina dopo pagina, rigo dopo rigo, paziente e lenta come un gesto zen, la scrittura accompagna il processo conoscitivo. Potrei spingermi a dire che questo libro è – anche – il racconto di un’esperienza del corpo, ma nel senso in cui l’esperienza corporea deve essere vissuta “in prima persona” per potere – solo dopo – essere generalizzata. Non vale il contrario, ovvero la generalizzazione che precede i casi particolari, la norma astratta-universale che consentirebbe di comprendere poi le singole esperienze individuali, incostanti, inessenziali…

E tutto questo parte dal metodo: in Nubile è questione, cioè – nel luogo di un vissuto in cui la filosofia è la pratica –, di messa a punto di esercizi di scrittura, di elementi di auto-auscultazione, come pure di forme di apprendimento e attenzione a queste stesse tecniche nel mentre le si usa: quaderni di campo, resoconti, diari di bordo, tracciati biografici, diagrammi. Non ci si riannoda, così, a quella sotto-tradizione nelle scienze umane che ha affrontato alla sua maniera il tema del campo e degli effetti di campo che l’osservatore mobilita, essendo da sempre parte del campo stesso che vuole oggettivare? Chi descrive l’oggetto è campo ma anche interferenza produttiva, origine senza origine di altre linee di riverberazione, che aprono il campo stesso al suo interno/esterno. Basterebbe ricordare una certa movenza autobiografica nel Lévi-Strauss di Tristi tropici – del viaggio che è tanto spaziale quanto “interiore” –, o del Bourdieu di Questa non è un’autobiografia. Elementi per un’autoanalisi, ma anche quella tendenza visibile nella filosofia contemporanea, più sottile e per certi anche versi discussa, in autori come Gargani o Derrida, che hanno esplorato forme di scrittura filosofica autobiografica non fine a se stessa, ma, anzi, esperienza capace di riattivare “diversamente”, cioè di ri-formare, le questioni filosofiche astratte. Teoria e prassi.

Quel “dire io”, più o meno dissimulato, ci interroga sul valore della conoscenza e anche, in fondo, della scienza: forse la vera finzione non è tanto o soltanto quella del racconto, del récit o del mithos comunque inteso, ma è quella del gesto estremo – eccessivo o titanico – di auto-escludersi dal campo cui si appartiene, dal tessuto vitale da cui si proviene: l’impossibile della scrittura, ma anche l’impossibile, a ben vedere, della scienza in quanto pratica umana e sociale. Più l’autore controlla e auto-esclude se stesso, sacrificandosi all’idolo della scientificità, più l’autore riafferma se stesso. Effetto di campo e punto cieco: teorema di Gödel.

Forse implicitamente, il libro di Nubile apre qualche spiraglio, anche, in questa direzione.


© Giovani Nubile, I mille corpi di Buddha, Kaiak Edizioni 2023