I collettivi come paradigma di nuove pratiche, esempio per il futuro
Carmen Lorenzetti

07.04.2024

La sesta edizione del March Meeting che si è tenuta, come ogni anno dal 2008, a Sharjah, ideata e curata da Hoor Al Qasimi e dedicata al concetto di collettivo è l’occasione per una riflessione.

Il titolo del convegno era Tawaishujat che in arabo significa connettere insieme, unificare, e chiama a raccolta pensieri, pratiche sociali e culturali incentrate sulla solidarietà e la collaborazione.

Rivaluta approcci artistici, curatoriali e attivisti riconfigurando il ruolo dell’arte e degli artisti oggi.

Decentralizza il concetto di un’arte come prodotto individuale ed espressione autonoma, smascherandone il canone occidentale imposto come universale in un’arte globalizzata, e mettendone in discussione i presupposti di potere geoculturale e postcoloniale.

Indaga invece nuovi modi di stare insieme attraverso piattaforme di studio, movimenti attivisti, pubblicazioni, che possono servire come strumenti di giustizia sociale, solidarietà e mobilitazione politica.

Questo appuntamento sembra configurarsi come continuazione dei presupposti di documenta 15 del 2022 curata dai ruangrupa, quasi non si volessero perdere le idee e le modalità innovative e rivoluzionarie messe in campo dalla mostra di Kassel. In effetti i ruangrupa (Mirwan Andan del collettivo ha parlato il primo giorno del Meeting) sono piuttosto restii ad usare la parola arte, mentre utilizzano la parola condivisione (sharing), crescita comune e mettere in comune le risorse (lumbung) e calarsi in qualsiasi contesto con cui vengono a contatto (ecosystem). Si tratta di una nuova modalità di intendere l’arte, che due anni fa ha creato scalpore e resistenze e che forse non è stata capita fino in fondo o piuttosto che non è stata accettata e non solo dal potere di un sistema fortemente radicato nel mercato, ma anche da certe frange che si vogliono autodefinire radicali (e quelle si, le definirei radical-chic).

Sharjah ne raccoglie l’eredità cercando di aggiornarla non con nuovi presupposti, ma con nuove proposte e in un contesto che si posiziona fortemente anche sul piano geopolitico oltre che culturale. Infatti moltissimi sono stati gli ospiti palestinesi invitati a partecipare, sia tra i collettivi contemporanei e storici, sia attraverso l’invito a poeti, artisti singoli, sia attraverso una mostra molto bella dedicata interamente all’arte palestinese. Mentre molto più sfumati, per non dire inesistenti erano i riferimenti alla guerra russo-ucraina. E persino nell’interessante intervento dello scrittore Tariq Ali, tutto volto a smascherare la cultura della cancellazione dei media nei confronti delle azioni pro-Palestina.

Passiamo in rassegna alcuni dei valori guida della kermesse attraverso le voci degli stessi collettivi.

Il collettivo curatoriale What, How and for Whom ha parlato di smascheramento del canone occidentale, apertura dell’istituzione alla comunità (ora dirigono la Kunsthalle di Vienna), e di cura. La cura viene molto chiamata in causa da varie mostre in questo periodo anche a sproposito, infatti è un termine con una valenza che si spoglia dell’idea classica di cura-tela (semplicemente di mostre con opere anche senza progettualità che non siano quelle della semplice e non esplicitata cura), per acquisire invece quella sociale, quasi medico-antropologica e politica di prendersi cura delle persone fragili, ai margini, escluse dal sistema ed ha una valenza politica che andrebbe recuperata da una sinistra non timida e claudicante. La cura viene chiamata in causa anche dal giovane collettivo topsoil, che evidenzia pratiche di studio e ricerca comuni, capaci di creare spazio e tempo alternativi, con l’uso di mappe cognitive con riferimenti alla condivisione persino con una mappa con il sistema di crescita e relazione salvifica per l’ecosistema delle piante.

Diversi erano i collettivi storici già stati invitati a documenta 15, molto militanti e spostati verso il recupero sociale oppure per la condivisione di momenti comunitari che riprendono ritualità ataviche e oggi spesso definite esclusivamente in prospettiva consumistica come “tempo libero” quindi intervallo finalizzato al recupero attivo dal sistema produttivo del lavoro (Byung-Chul Han, Vita contemplativa o dell’inazione, Nottetempo, 2023). Invece si riprende la fecondità culturale, sociale e politica nel senso di rivoluzionaria dei concetti di festa, di cibo come convivialità e uso di tradizioni culinarie, della danza e della musica (The Question of Funding, Trampoline House, Britto Arts Trust, Ghetto Biennale di Haiti).

E’ interessante vedere come l’eredità dei collettivi storici continui nei collettivi più giovani con un’accelerata coscienza critica e un aspetto molto forte dedicato alla ricerca e alla sua sistematizzazione in un linguaggio critico. Il somalo Dhaqn collective, il cileno Woven Memories, il peruviano Noqanchis e il palestinese Nöl Collective infatti incentrano il proprio lavoro sul ricamo, la tessitura, il cucire identificandolo in primo luogo come linguaggio complesso, stratificato, portatore di simboli e di narrazioni antiche. Quindi il tessuto diventa un archivio da decodificare e tesaurizzare, ricettacolo di memoria collettiva. Si costruiscono così delle contro-narrazioni, si recuperano storie e forme indigene e infine viene recuperata (secondo il Nöl Collective) un’attività anticapitalistica basata sui valori della lentezza e della comunità. Tutti questi collettivi infatti lavorano con le popolazioni indigene o comunque con persone che possiedono abilità e memoria, facendo operazioni di anti-cancel culture.

I collettivi non sono gli unici ad operare in maniera partecipativa, lo fanno anche artisti che lavorano individualmente naturalmente, ma operare collettivamente decentralizza l’autorialità, porta ad una pratica basata totalmente sulla relazione, sul concetto di mettere in comune e quindi porta ad una metodologia di ricerca, di studio e di esperienza che riconfigura il sapere, lo de-gerarchizza, e, della pedagogia stessa, recupera le valenze radicali a partire da Paulo Freire e da Jacques Rancière, ma anche le ricerche artist-based, dove si ibridano le metodologie.

L’arte, anche sotto la spinta delle sperimentazioni che provengono dai Sud del mondo che mettono in forte questione l’eredità occidentale, le sue pretese universalistiche, attraverso invece una prospettiva postcoloniale e di recupero del sé e di una propria identità, ha cambiato pelle: vive nell’ibridità delle pratiche, nella partecipazione e nel suo arare sempre di più i terreni del sociale. Del resto il Programma di lavoro del 2023-2024 della Commissione Europea n. 5 Culture, Creativity and Inclusive Society nell’ambito di Horizon Europe prevedeva i fondi per tre macro-aree: 1) Destination: Innovative Research on Democracy and governance, 2) Destination: Innovative Research on European Cultural Heritage and Cultural and Creative Industries – Building our Future from the Past, 3) Destination: Innovative Research on Social and Economic Transformations.

Solo in quest’ultima piattaforma vi è un riferimento alla parola arte, ma lo è in un senso tutto particolare e finalizzato ad un utile socio-culturale oppure in vista di una ricerca collaborativa e trasversale: infatti a pagina 135 il paragrafo è intitolato: Methodologies for teamworking of researches: reinforcing transversal collaborative skills, behavioural and implementation sciences e a pagina 137: Arts and cultural awareness and expression in educational and training.