Husserl, la scienza e l'ecologia
Stefano Righetti

09.05.2021

Su quali basi possiamo assumere oggi una decisione circa il nostro modo di essere e di vivere in quanto umanità? Domanda sciocca, si dirà, dal momento che ogni nostra decisione non ha nel mondo attuale altro fondamento se non quello economico. È perciò illusorio attendersi che la decisione contraddica ciò su cui si basa il suo stesso decidere. La stessa cosa avverrà probabilmente per la crisi ambientale e climatica. Il termine "sostenibile" non riguarda infatti, in questo caso, l’ambiente, ma la possibilità di perpetuare l’attuale modello economico e di sviluppo. Salvaguardare l’esistente, dunque, più che trasformarlo. Non è quindi un caso che il termine "sostenibile" compaia in ogni documento di governo dedicato alla programmazione economica: è ciò che garantisce la perpetuazione del modello attuale edulcorando nella definizione di "sostenibile" il fatto che questo modello non potrà comunque cambiare, se non in termini limitati e pubblicitari.

Può sembrare una provocazione ma forse dovremmo tornare davvero all’Husserl de La crisi delle scienze europee. Solo che alla parola "scienza", oltre che attribuire il significato tradizionale assunto da questo termine, ulteriormente complicato dal problema delle sue applicazioni nella tecnica, dovremmo più coerentemente intendere, come ricordava già del resto Enzo Paci nella prefazione all’edizione italiana dell’opera di Husserl nel 1968, l’economia politica: la scienza economica. La scoperta che Ricardo indicava con il termine "valore" e il fatto che "il valore agisce nell’economia come significato di verità" (E. Paci, Prefazione a E. Husserl, La crisi delle scienza europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, 1961, 2002, p. 13).

La verità scientifica, ci dice Husserl, è la constatazione obiettiva di quel che il mondo è, secondo ciò che la scienza ammette come valido. Come affermare la differenza rispetto a questo regime di verità e al suo funzionamento? L’epistemologia della scienza rischia di porsi come una vana consolazione accademica, soprattutto senza un corrispondente politico. Che però, per diventare efficace, avrebbe bisogno di una maggiore comunanza con i problemi reali dell’esistenza, senza negarli con la loro continua relativizzazione a opera della storia. Entrare insomma nel dettaglio senza svalutarne l’importanza. Eppure, di fronte alla crisi climatica e alla sua minaccia radicale per l’esistenza della specie, il monito di Husserl sembra oggi ancor più attuale: "la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive [...] con cui si lasciò abbagliare dalla ‘prosperity’ che ne derivava" (E. Husserl, cit., p. 35).

Lungi da qui ogni liquidazione puerile della scienza. L’intenzione di Husserl (lo sappiamo) non era certo questa. Il problema è invece tutto in quella "prosperity" che la scienza ha assicurato, nascondendo (uso un termine frettoloso, Husserl usa la parola "abbagliare") ciò che questo sviluppo ha significato e poteva significare per l’esistenza umana. Tradotto in termini politici: il fatto che sarebbe diventato difficile concepire una differenza credibile dal modello che quella prosperità aveva istituito a partire dalla scienza moderna e dal suo funzionamento teoretico.

Se subito dopo la guerra (la prima), nota Husserl, nel pubblico si era generata una certa ostilità nei confronti del modello scientifico, sappiamo anche che le economie occidentali (dopo la seconda guerra mondiale) hanno assorbito e superato quell’ostilità attraverso una sempre più ampia e pervasiva prosperità. Il rapporto fra la scienza economica e le scienza naturali era stato a fondamento della critica di Marx; ma la prosperità dello sviluppo neo-capitalista, invece che portare al superamento di quelle che il marxismo chiamava le sue contraddizioni, ha avuto l’effetto di consolidarne definitivamente il modello.

Tornare all’origine della scienza, là dove la fondazione della sua verità non si dava ancora in una metodologia autonoma e distinta dalle altre forme della cultura e della vita umana, e ricercarne con ciò anche un nuovo inizio, è stata in fondo l’utopia della fenomenologia. Il fallimento della sua ricaduta politica era forse già inscritto nelle sue intenzioni, dal momento che nel frattempo l’ostilità del pubblico nei confronti della scienza si andava trasformando in una sempre più cieca dipendenza dalle sue applicazioni tecniche. Nondimeno, di fronte alla crisi ecologica e alla prospettiva della sua minaccia, il richiamo di Husserl sembra tornare oggi con tutta la forza della sua attualità.

Ma occorre sottolineare che esso ha nel frattempo cambiato di segno: non possiamo più dire infatti che "nella miseria della nostra vita", come Husserl scriveva allora, "questa scienza non ha più niente da dirci" (ibid. p. 35), perché oggi è invece proprio la scienza a metterci in guardia sulla miseria della nostra vita e su ciò verso cui essa sta andando inesorabilmente incontro. Il punto è semmai che nel frattempo (come Marx aveva indicato) un’altra scienza (la scienza dell’economia) ha assunto il ruolo di governare la nostra vita, determinando la sua miseria in modo ormai inequivocabile e il rischio (ma la cosa non è neppure più ipotetica) della sua generale scomparsa.