Per non farla finita con la filosofia
Ubaldo Fadini
09.09.2021

Premessa



Tutto o quasi concorre oggi a rendere insignificante la filosofia: ciò lo si può verificare facilmente a partire dalle s/qualifiche che la riguardano e che la restituiscono come orpello accademico o strumento di gratificazione illusoria di narcisismi che si vogliono neppure troppo infantilmente (magari...) performativi.

E' comunque evidente, agli occhi di coloro che vogliono o possono comunque vedere, la complicità dei tanti che veicolano un tal modo di “fare” filosofia con il supporto di dogmatiche ideologiche che mal sopportano pratiche di pensiero non risolvibili all'interno di quadri tematici di riferimento che valgono soprattutto come conferma della “bontà”, ritenuta indiscutibile, di quella logica di funzionamento della società che persegue l'obiettivo – primo e ultimo – del profitto e quindi dell'intensificazione delle dinamiche di sfruttamento, a qualsiasi livello di articolazione.

Si pensa da “soli”, è vero: ma già da soli siamo “molti” e la sostanza del nostro (modo di) pensiero è “naturalmente sociale”. Su questo insistono tradizioni di pensiero critico-radicale che vale la pena riproporre per la loro passione etico-politica e la ricchezza di strumenti ancora oggi utili per afferrare qualcosa di essenziale del nostro tempo.

Ma ciò non è sufficiente, tenendo pur ferma la posizione deleuziana sulla filosofia come creazione di concetti o la sensibilità dei primi “francofortesi” (e di alcuni dei loro successori, quelli meno noti e più eccentrici) sul significato del dilagare odierno del non-teorico, anche sotto veste “astratta”, sui piani di scorrimento della società capitalista e della sua iper-valorizzazione.

C'è bisogno di più o forse anche di meno... . Quello che però appare indispensabile è mirare, da una parte, alle figure spettacolari – nelle quali “la merce contempla se stessa in un mondo da essa creato” (per dirla con il vecchio Debord) – dello spaccio pseudo-filosofico in forma linguistico-comunicativa, politico-conflittuale, teologico-mistica, con il particolare design concettuale di accompagnamento prodotto nel secolo che abbiamo alle spalle e ribadito in mille maniere anche nei nostri giorni, dall'altra puntare alle movenze di una filosofia “pratica”, decisamente sperimentale e aperta al “non-filosofico” (il che ce la restituisce anche come tentativo, saggio... ma non soltanto), che mette a tema non il motore dell'adattamento (che porta con sé le articolazioni punitive della presa d'atto della presenza di carenze, mancanze, difetti, debiti di varia entità, considerati come qualcosa di naturale e non costruito), bensì la pratica – appunto – della disattivazione incessante, con effetti di destabilizzazione e di ricerca di nuovi equilibri, accompagnata dalla consapevolezza della loro provvisorietà/revocabilità, di tutto ciò che si pretende ben disposto e di fatto conforme, nel senso di assicurare ciò che conta per il fare teoria e pratica (pure sotto veste filosofica).

In breve: oggi c'è bisogno di apprezzare al meglio possibile e di riproporre nella loro piena incisività tutti quegli elementi/strumenti che possono liberare (anche nel senso di disattivare parzialmente ciò che sembra inevitabile, imprescindibile) l'intelligenza e la sensibilità umane. Ed è proprio la filosofia che si può fare interprete e testimone di tale apprezzamento, radicalmente critico, apparendo agli occhi di qualcuno come “cattiva filosofia”: finalmente, verrebbe da aggiungere.

Si parla sempre più spesso di attualità della filosofia nella crisi (sanitaria, ecologica, di “civiltà”, ecc.): non è il nostro caso; a noi non interessa una “buona” filosofia, ci piace quella che spesso viene considerata “cattiva”, decisamente un po' troppo indisciplinata secondo il gusto intellettuale corrente.

Come fare della “cattiva” filosofia, vale a dire pratica, critica, di movimento (questa è la sua “anima”...) se non puntando ai terreni di incontro e di scontro nel nostro paesaggio sociale, in ciò che abbiamo davanti agli occhi e che ci ri/guarda? Filosofia proprio come “in/disciplina”, per dirla riprendendo ciò che Tim Ingold afferma a proposito di una antropologia rivolta a “ripensare il mondo” e che può valere in parte anche per ciò che qui interessa: se c'è una ragione della filosofia è quella contingente (non c'è storia universale... c'è soltanto quella della contingenza, vale la pena ripeterlo, con i suoi innumerevoli paesaggi esistenziali).

Tra le condizioni della filosofia, ancora con Gilles Deleuze e Félix Guattari, sono da richiamare senz'altro una certa “sociabilità”; un certo piacere di associarsi, vale a dire l'amicizia, ma anche quello di dissociarsi (il piacere infine del conversare...).

E questo per restare in un qualche modo in relazione con il movimento della “Terra”, con la sua “deterritorializzazione” pura nel volgersi appunto verso il manifestarsi dell'imprevedibile con la creazione del possibile e, insieme, con la realizzazione, così facendo, delle proprie impossibilità, come si può leggere in Pourparler, di Deleuze.

Uno dei modi di non farla finita con la filosofia può essere quello di tornare provvisoriamente a restituirla, di con/cederla, alle sue effettive condizioni di esercizio, richiamando così l'esigenza di tracciare nuovi piani, d'inventare, di aprire – con la creazione di concetti, la produzione di immagini del pensiero e di personaggi concettuali, tra l'altro – a nuove dimensioni possibili di esistenza, ad altre condizioni di vita.


© Per non farla finita con la filosofia, a cura di Ubaldo Fadini, Editrice Clinamen 2021
testi di Silvano Cacciari, Roberto Ciccarelli, Ubaldo Fadini, Stefano Righetti e lo pseudonimo Utente Sconosciuto