04.03.2021
Goethe e la storia
Manlio Iofrida

4. Dopo Kant Goethe?”, si chiederà un po’ indispettito il lettore. Quel vecchio parruccone, quel monumento a se stesso, quello che fa coppia con Schiller in nome del più vieto e stucchevole classicismo? Non nascondiamocelo, il nostro lettore avrebbe le sue ragioni: nonostante Walter Benjamin e il suo saggio sulle Affinità elettive, specialmente in campo letterario i fasti del nostro sono piuttosto impalliditi, e lo stesso Faust sembra un classico un po’ ingiallito (naturalmente parlo del grande pubblico; ma degli specialisti che continuano a seminare il campo goethiano ci si deve fidare? Non hanno la statura di vice famuli del più celebre famulus della letteratura, il Wagner di Faust?).

Come se questo non bastasse, il discorso che mi appresto a fare riguarda il rapporto del poeta tedesco con la storia e, quindi, con la rivoluzione, che sembra essere un suo tallone d’Achille: a partire da quando, a Valmy, salutò sì l’avvento del mondo borghese, ma schierandosi decisamente contro i rivoluzionari francesi, Goethe ha segnato la sua iscrizione nel libro d’oro dei conservatori: le Conversazioni di immigrati tedeschi, Il gran Cofto (una delle cose più brutte che siano uscite dalla sua penna), Gli anni di noviziato di Guglielmo Meister  (che invece è un capolavoro) ci hanno documentato la sua sofferta accettazione di una modernità che egli non poteva che vedere come un’epoca della Entsagung, della rinuncia per l’individuo, della necessità per lui di sottoporsi all’ autorità e a una razionalità ingegneristica tanto efficace e produttiva quanto mortifera per l’arte e per l’artista. Eppure... Eppure a partire almeno dal XX secolo due dei prodotti della poliedrica e prodigiosa creatività goethiana hanno contribuito a sostanziare in modo decisivo un modo di vedere la storia che è uno dei più alti e dei più ricchi che abbiamo oggi a nostra disposizione: in una parola, che è più attuale per noi.

Innanzitutto, questo nemico della Rivoluzione, quest’uomo che visse tutta la vita all’ombra di un piccolo Duca tedesco e che si adattò senza troppe difficoltà al celebre filisteismo della vita della Germania fra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento, è stato, per altro verso, il primo artefice della mondializzazione culturale: è lui che, come scrittore e come critico, ha infatti dato vita alla Weltliteratur, alla Letteratura mondiale, che per noi oggi è un concetto ovvio, uno dei presupposti indiscussi e inconsapevoli della nostra cultura, ma che prima di Goethe non esisteva.

Si dirà: va bene, d’accordo, è un gran merito, ma in fondo così, con grande acutezza e preveggenza, Goethe accompagnò i due movimenti più potentemente rivoluzionari del suo tempo, la Rivoluzione francese (con cui da questo punto di vista andò a braccetto) e quella industriale: aprì la letteratura al gran teatro in cui protagonisti erano tutti i popoli del mondo e inaugurò il grande scambio culturale che accompagna da allora quello delle merci - la Weltliteratur essendo nient’altro che il recto il cui verso è il Weltmarkt.

Ma basta andare a vedere cosa più precisamente Goethe intendesse per Letteratura universale perché ci rendiamo conto che il suo modello andava molto oltre il gretto utilitarismo inglese o la ragione strumentale di weberiana memoria. Infatti lo scambio che è il cuore di quel concetto è profondamente legato al tema goethiano che più, nel poeta tedesco, amò Walter Benjamin, quello della traduzione.

Aprendo la strada ai Romantici, Goethe vede nel momento del tradurre l’aspetto più importante della relazione che si istituisce fra le diverse letterature nazionali. Il compito del traduttore (per riprendere questo titolo di un classico saggio benjaminiano) non si limita a trasportare in una lingua i significati di un’altra, a dar veste tedesca a ciò che è scritto, ad esempio, in francese: esso invece sollecita la propria lingua ad assumere quelle nuances, quei significanti e quei significati, ma anche quelle strutture sintattiche che possiede solo potenzialmente e che a contatto con l’altra lingua riesce a realizzare.

Così, quel lavoro del tradurre che in prima istanza si presenta come una riduzione dell’altro alla mia identità, come un suo inglobamento e una sua assimilazione, si rivela, se praticato nel suo significato più profondo, come una vera e propria trasformazione di se stessi a contatto con l’esperienza dell’altro; e la traduzione non è che un nuovo potente mezzo con cui si realizza quella entrata nel teatro universale, quella realizzazione di una grande coesistenza spaziale in cui già Kant aveva indicato la sostanza della nuova storia su cui l’umanità si affacciava.

Se nel Weltmarkt lo scambio avviene sotto l’egida del denaro, che, come insegnerà poi Marx, riduce le merci a mero equivalente universale, toglie loro ogni specifica qualità per ridurle ad astratto, nella Weltliteratur ogni lingua consiste nella sua specificità accanto alle altre e anzi potenzia e accresce la sua specificità e peculiarità e ricchezza individuale grazie allo scambio con le altre.

Questa visione è schiettamente anticolonialista e non è dunque un caso che, se Goethe, come dicevo all’inizio, è da noi oggi relativamente dimenticato, fra i nuovi popoli, nell’ambito della letteratura postcoloniale, uno studioso come Homi Bahba dica della Weltliteratur che essa, filtrata attraverso la contemporanea esperienza dei popoli postcoloniali e dei migranti, potrebbe essere una categoria con cui dar conto del dissenso culturale e dell’alterità, nonché del trauma storico vissuto da quei popoli («Transnational histories of migrants, the colonized, or political refugees - these border and frontier conditions - may be the terrains of world literature» (Homi K. Bahba, The location of culture, Routledge, London and New York, 1994, p. 12)

La storia come un teatro in cui ognuno degli attori è in parità di posizione con gli altri e sviluppa la propria differenza (come avrebbe detto Michel Foucault, citando René Char nella sua Storia della follia); una storia che non è una successione evolutiva di gradini temporali indirizzati verso il meglio (il presente di noi occidentali), ma l’allargarsi di una galassia multicentrica, secondo un modello squisitamente spaziale: si trattava, certo, di un’utopia, ma (paradosso dei paradossi) questo Goethe aedo del conservatorismo non delineava i tratti utopici di un socialismo sottratto allo spettro dell’uguaglianza totalitaria, di un collettivo omogeneo, di quella massa inquietante su cui ci ha richiamato qui l’attenzione, in un recente articolo, Stefano Righetti?

Non abbiamo qui lo schema di una società in cui il rapporto io-altro significa non il proiettarmi narcisistico sull’altro né la mia sottomissione passiva, il mio perdermi in lui, ma un far fiorire lui dentro di me e viceversa? Tanto che in ogni momento la distanza e la prossimità si sviluppano proporzionalmente? E, pensando alla storia, e al nostro rapporto col passato, l’applicazione di questo schema non ce la mostra sotto una nuova luce?

Il nostro presente si rivela allora non come il telos di un movimento necessario, assorbente e nullificante di ciò che ci precede, ma come il luogo in cui esso può rinascere, rinnovarsi e dove, benjaminamente, ad alcuni germi di passato può essere resa infine giustizia, cosi come per suo verso il nostro presente può essere il luogo della genesi e della creazione; passato, presente e futuro non sono, in questa visione, disposti su una linea ascendente e crescente, ma giocano in una coesistenza circolare.

A questa visione della storia come traduzione Goethe giunge anche attraverso un altro grosso filone del suo lavoro, quello delle sue ricerche naturalistiche. Il nesso è stretto e quasi ovvio: l’interesse del poeta tedesco verso il fenomeno della traduzione non è che un altro aspetto del suo spinozismo e del suo panteismo: non è la natura per lui un’eterna vicenda di traduzione-trasformazione di tutto in tutto?

In questo senso il grande studioso novecentesco della traduzione, Antoine Berman, individuava nel concetto stesso di vita delineato da Goethe uno stretto legame con quello della traduzione. Siamo così ricondotti a uno dei testi goethiani più capitali e più influenti sulla cultura del Novecento: la Metamorfosi delle piante, grande frutto dell’esperienza italiana del poeta, che, prima a Padova e poi nel Giardino Pubblico di Palermo, ebbe la visione della pianta originaria (Urpflanz). Il gioco fra uno e differenza, fra ripetizione e innovazione che viene qui istituito, la reciprocità del momento trasformativo, attivo, genetico, dinamico (in ogni momento tutto si metamorfosa in tutto, tutto passa in altro) e di quello conservativo, ripetitivo, passivo, l’incrociarsi e il distaccarsi reciproco del tempo sullo spazio, dello spazio sul tempo faranno di questo testo - in cui veniva delineato il grande programma della morfologia goethiana - un archetipo per la riflessione novecentesca sulla natura come sulla storia.

Nel ciclo della pianta Goethe vede il culmine della produttività e della capacità creativa della natura; tanto che essa si fa il simbolo di una natura che già si protende verso la storia e insieme di una storia che è attraversata dalla ripetitività e dalla ricorsività della natura; e si spiega allora come a questo Goethe si tornerà a riferire la teoria dell’evoluzione, che infletterà un darwinismo che si era configurato secondo un modello eccessivamente lineare e teleologico verso una visione in cui spazio e circolo e tipo tornano ad avere una funzione - stiamo parlando (ma è solo un esempio fra altri) delle grandi ricerche di Stephen Jay Gould sugli equilibri punteggiati e sulla freccia e il circolo (La freccia del tempo, il ciclo del tempo, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1989).

E ad esso torna a riferirsi altrettanto la filosofia della storia, non solo con le interessanti, ma per molti versi criticabili intuizioni di uno Spengler, ma con le ricerche del formalismo russo - nell’ambito del quale Eisenstein in particolare sviluppa una riflessione su storia e natura, differenza e ripetizione, progresso e regresso con costanti riferimenti non solo alla biologia, ma all’opera dello stesso Goethe - e anche dello strutturalismo, il cui tentativo di una visione spaziale della storia - si pensi all’influenza di Goethe su Lévi-Strauss - procede nello stesso senso.

E non si dimentichi che la riflessione weberiana sull’idealtipo è a suo modo una rimessa in campo della tematica goethiana. L’odierno rinnovarsi di una filosofia della storia legata alla geografia, alla terra, ai ricorsi e ai tipi, l’idea di una storia ripensata sui ritmi della natura, di una “storia geologica” o di una “geologia trascendentale”, fra Merleau-Ponty, Berque e Chakrabarty, o anche di una storia archeologica, nel solco di Michel Foucault, non rappresenta una vendetta postuma di quel Goethe che a Valmy scrutò con tanta diffidenza l’avvento della modernità?