Fuori tempo. Sull'assoluto dell'istituzione
Ubaldo Fadini

21.06.2021

Stimolato dall'ascolto di due importanti contributi sul tema dell'istituzione, all'interno dei seminari organizzati da “Officine filosofiche”, forniti da Rita Fulco e Francesco Marchesi, mi lascio andare ad alcune impressioni con l'idea che possano tradursi anche in osservazioni più concrete, sempre a proposito del motivo centrale di richiamo, quello appunto dell'istituzione, a me particolarmente caro.

Prima di tutto, Simone Weil e i suoi appunti sull'organizzazione (con forte rimando, nel contributo di Fulco, al testo “sulla soppressione dei partiti politici”). Ricordo alcune pagine di Laura Boella (in Le imperdonabili) nelle quali si sottolinea come un'autrice come Cristina Campo, con la sua “esperienza di assolutezza”, trovasse proprio in Weil una “maestra” in tal senso. Da qui la misura, propria dell'“assolutezza”, da riferire all'indagine sulla nudità della condizione esistenziale e al tentativo di coglierne la “purezza” in un “mondo rovesciato”, diverso da quello sensibile, codificato/istituito nelle forme che ben conosciamo. Insomma, alla base c'è in ogni caso il confronto delicatissimo con l'imperfezione umana e appunto si sa come tale motivo abbia sempre accompagnato l'approfondimento delle ragioni proprie dei tessuti istituzionali, delle forme preziose che assicurano un più di sicurezza ai nostri transiti di pensiero e di materia.

Si potrebbe ritenere, in prima approssimazione, che l'esigenza dell'“assolutezza” entri in rotta di collisione con la riproposizione di vincoli, soprattutto di carattere temporale, che hanno come specificità quella di integrare qualcosa che si modifica incessantemente, provocando così la loro stessa variabilità. Non lo considero errato ma penso che tale esigenza abbia una motivazione decisiva, in termini di sensibilità e di conoscenza, che consiste nel desiderio di valorizzare al massimo, con il “culto” che ne consegue, l'eventuale presentarsi di qualcosa di imprevedibile, di inatteso, anche di sconvolgente, per le misure date, e quindi ancor più coinvolgente (pure nel senso della prova dolorosa, dell'esporsi senza esitazioni al pericolo che si manifesta).

C'è, in fondo, una richiesta che viene avanzata in modalità che non possono non colpire, impressionare: un bisogno di riattivare sempre e comunque ciò che di concreto – nel processo continuo del venir meno, dell'affermarsi della vanità del tutto, malamente occultata – l'esigenza umana dell'“assolutezza” permette di cogliere in alcune ben determinate espressioni, vale a dire la possibilità stessa di una soddisfazione.

A me colpisce proprio tale fedeltà (anche, in un qualche modo, la pratica di custodia in cui prende corpo...) al rilievo da accordare all'imprevedibile: se ne potrebbero, credo, seguire le ragioni sottili e decisamente inquietanti (in senso non soltanto negativo), quello che ne sta alla base, ma qui mi preme rimarcare come una parte significativa della tradizione di ricerca sul tema dell'istituzione, nel secolo scorso, abbia in effetti cercato di “salvare” l'imprevedibile mediante un suo tra-dirlo nel processo di imprescindibile re-invenzione continua dei mezzi indiretti di soddisfazione dell'esigenza sopra richiamata.

Non troppo a che vedere, quindi, con le raffigurazioni in senso “verticale”, “negativo”, sempre nella qualificazione di qualcosa che comunque riesce a “durare”, dell'istituzione: certo, resta in primo piano la sua funzione propriamente selettiva, la cui cura restituisce la ragione di uno strutturarsi sempre più in grado di reggere il compito proprio di una operatività decisa ad esprimersi in rapporti di potere quanto mai concreti. Anche in questo senso, si può comprendere l'istituzione come una pratica di messa in ordine che non va pensata unicamente in modalità del de/terminare che si pretendono appunto definitive, ultime, in quanto essa come minimo evolve, cambia, si modifica in una sorta di riproduzione del proprio tessuto che realizza però differenze di articolazione, di movimento e, insieme, di strutturazione.

Come ci collochiamo poi al loro interno, sotto quale veste? Scherzando con un po' di sociologia di approccio sistemico, si potrebbe dire che il nostro eventuale integrarci nei “corpi” delle organizzazioni di segno istituzionale, al di là degli effetti che pesano sulle questioni dell'identificazione personale (si pensi, esemplificativamente e però concretamente, al motivo della “carriera”), registra inevitabilmente un effetto di destabilizzazione provocato dal fatto che ciò che viene a galla non è la definitezza di uno stato di fatto, di una condizione data in forma ultima, ma la presa d'atto della variabilità del tutto, del suo oscillare, reso ancora più evidente nel confronto con ciò che che si manifesta inaspettatamente; tra parentesi: si badi tuttavia al fatto che qui l'inatteso risulta sorprendentemente atteso perché differente, manifestazione cioè di una differenza che accompagna la ragion d'essere dell'istituito con quel suo esercizio di autovalidazione supportato proprio dall'apparizione dell'imprevedibile.

L'istituzione desidera l'imprevisto, vive dell'accidente, sopportandolo anche eventualmente nella forma “incidentale” della più radicale messa in discussione dei suoi equilibri o delle sue capacità di oscillazione: essa è fondamentalmente “plastica” proprio perché veicola delle esigenze di “assolutezza”; quando questo suo carattere perde di smalto, ecco che si ricade nel compito della riproposizione accanita del sempre-uguale, dell'“identico”, che la specifica nel senso della rimozione insistita, accanita, dell'imprevedibile: la sua “assolutezza” si indebolisce allora irreparabilmente e sorge il bisogno di trovare nuovi procedimenti di soddisfazione, di espressione/articolazione del desiderio di differenza (nel doppio senso del genitivo).

È il valore del tradimento dell'assoluto, così comunque veicolato, che mi sembra emergere da questo complesso di osservazioni, stimolato da Weil e altre/i possibili interlocutori. Con un'aggiunta, un po' fuori luogo e di segno più “storico-politico”: se le analisi weiliane ci restituiscono una fase storica contrassegnata da un “certo” capitalismo, la ripresa della sua sensibilità di ordine teorico e pratico, a partire anche dalla traduzione del suo testo L'ombra e la grazia da parte di Franco Fortini, proietta tutto ciò su uno sfondo altrettanto “esigente”, quello delineato da Adriano Olivetti, che vide a suo tempo anche la presenza di un altro ricercatore di rilievo come Sergio Bologna. Studiosi, figure complesse di intellettuali – Franco Fortini e Sergio Bologna – che accompagnarono una esperienza, preziosa ancora oggi, di ricerca, di con-ricerca, rispetto ad articolazioni ulteriori del “nostro” modo di produzione: e qui il rimando, per risultare più netto, non può che essere alla stagione dei “Quaderni Rossi” di Raniero Panzieri.