Foucault sulla graticola dei mass media
Manlio Iofrida

20.04.2021

Da qualche settimana sulla stampa italiana c’è un ritorno di fiamma per Michel Foucault: il filosofo francese appare, in versione quanti mai pop, su una copertina del Venerdì di Repubblica (con articoli di Marco Cicala e Nicola Mirenzi), ma anche su Domani (Raffaele Alberto Ventura) e da ultimo sul Foglio (Giulio Meotti). In quest’ultimo caso, pur essendo il Foglio un giornale in cui il modo di trattare gli argomenti intellettuali è di frequente elevato, l’articolo a me sembra il peggiore, con un contenuto che è talvolta al limite del denigratorio; ma assai debole appare anche quello pubblicato da Domani, mentre i testi apparsi sul Venerdì sono tutto sommato - per livello e ricchezza informativa - i migliori.

Ma la mia intenzione, nello scrivere questo pezzo, non è di analizzare nello specifico questi interventi, assai diversi fra loro, per obiettivi politici, per scelte tematiche che operano all’interno della variegata e vasta opera foucaultiana, per il rilievo accordato al pettegolezzo (nel primo e nel terzo caso, di grado notevole). Quello che mi interessa è piuttosto mettere in rilievo ciò che questi articoli hanno in comune: la mancanza di un consistente contenuto filosofico, che ne costituisca il centro e l’ossatura - cosa che, trattandosi di Foucault costituisce un grosso problema: infatti, checché ne dicesse egli stesso, Foucault fu uno splendido filosofo; il fatto che della filosofia avesse fatto lo strumento per entrare nei più diversi campi non filosofici, il fatto che abbia praticato, per dirla con uno dei suoi maestri, Maurice Merleau-Ponty, tanta non-filosofia, non diminuisce, anzi accresce la sua taratura e il suo rilievo filosofici.

Dello scarso tenore intellettuale, che può essere rimproverato - a qualcuno di più, a qualcuno di meno - a tutti gli articoli citati, può essere individuata la causa nelle competenze degli autori, e tuttavia sono convinto che sarebbe un errore ritenere solo loro responsabili di questa insufficienza : se per parlare oggi di Foucault l’occasione è data soprattutto dai pettegolezzi sulla sua vita privata ( e certo, per i media, si tratta di un’occasione ghiotta, poiché Foucault fornisce molto da questo punto di vista), o se
comunque non si riesce a individuare un filo conduttore nei contenuti assai seri di ciò che ha scritto, bisogna piuttosto rendersi consapevoli di almeno due aspetti della situazione storico-politica e filosofica attuale che motivano molto meglio tutto ciò.

Dal punto di vista storico-politico, molto di ciò che oggi - in questa nostra epoca in cui il moralismo è assai più forte che nei famigerati anni Cinquanta democristiani - dà adito a pettegolezzo e pruderie scivola lungo tale crinale perché un insieme di istanze di liberazione e di grandi novità culturali che furono il portato dei Trenta Gloriosi e del loro culmine, gli anni Sessanta, quando non sono scomparse, si sono privatizzate, settorializzate, hanno perso il loro collegamento con l’idea più complessiva di una vita e di una società migliori. In parte, e penso alla tematiche LGBT, ciò è evidentemente il portato di una vittoria: ma, in parte maggiore, è il portato di una sconfitta complessiva del progetto di liberazione degli anni Sessanta e Settanta.

Solo se inserite in questo contesto molte delle cose anche detestabili che può aver fatto Foucault assumono un significato e un rilievo. Ma questo basta per screditare un progetto di liberazione ben più ampio, che di nuovi diritti ne ha generati a iosa? Il lavoro di Foucault, sull’onda del ‘68, ha molto contribuito, in campi assai diversi, a generare nuove esigenze di libertà, a far emergere nuove soggettività: se, a un certo punto, quella stessa esigenza di rispetto del più fragile e del più debole che lo aveva ispirato si tramuta in parziali autocritiche, nella consapevolezza che anche il movimento di liberazione chiudeva gli occhi davanti ai diritti di alcuni, non è ingeneroso, se non paradossale, prendersela con lui?

Del resto, anche un tema come quello della follia e della droga appaiono oggi mutati completamente di senso rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta. Riguardo al primo, di cui il filosofo francese realizzò il suo progetto di fare la storia, oggi, dopo che la tradizione antipsichiatrica si è, almeno parzialmente, sedimentata, anche per effetto dell’opera di Foucault, la follia non può assumere più quella concentrazione di significati che ebbe allora, facendo di sé e della miseria dei più deboli, emarginati e derelitti il vero obiettivo per una più vera libertà: per un progetto di liberazione che andava oltre la semplicistica  opposizione del borghese e del proletario e allargava il campo della redenzione a un insieme assai più ampio e complesso di vite e di esistenze.

Se quegli articoli, voglio dire, suonano come un po’ pretestuosi e privi di un vero mordente, è perché l’epoca del surrealismo e di Breton, di Artaud e di Beckett e Blanchot è veramente alle nostre spalle, e, se ci è difficile già parlare di Foucault, da dove ci rifaremo per riproporre a chi vive oggi la grandezza di questi ultimi, di cui il primo è l’erede?

Tutto ciò dal punto di vista storico-politico; per quanto attiene invece a quello filosofico, è da dire che, se non si riesce oggi a cogliere il centro dell’opera di Foucault, è essenzialmente perché è la filosofia oggi che non ha centro (e lo dimostrano anche diversi articoli che su di essa sono usciti di recente); e non lo ha perché la sua ultima grande stagione appartiene ai Trenta Gloriosi di cui Foucault è stato una grande voce (pur avendo cominciato a intuirne la fine negli ultimi anni del suo lavoro).

E qui vorrei dire con chiarezza una cosa che spero farà capire che quel che sto scrivendo non è (solo) frutto della nostalgia: il grande movimento di liberazione che culminò nel Sessantotto fu inevitabilmente troppo legato ai miti dell’industrialismo, dello sbarco sulla Luna, dell’utopia realizzata di una natura definitivamente dominata e esorcizzata. Dalla fine degli anni Settanta, si credette di star mandando in soffitta la rivoluzione politica, mentre i fatti - il disastro ambientale - cominciavano a scalzarne i presupposti.

Da allora le filosofie nate negli anni Sessanta, come tanta parte di quelle che si sono succedute dalla Rivoluzione francese in poi, appaiono desuete, non ci danno più il filo conduttore per orientarci in ciò che stiamo vivendo, non ci permettono di mettere in atto quella che Foucault chiamava « l’ontologia storica di noi stessi »; il che è come dire che dobbiamo uscire dal secolare e sempre più stonato e tautologico rimbalzo fra Marx, Nietzsche e Heidegger.

Solo quando il nuovo centro della filosofia sarà la questione di un nuovo rapporto con la natura - che ovviamente porta con sé anche dei nuovi rapporti fra gli uomini - potremo districarci nel groviglio dell’eredità che ci hanno lasciato questi nostri padri; ma l’eredità, io non ne ho dubbi, è ricca, sta agli eredi sapersela guadagnare.