Fotografia e femminismo. Uno sguardo agli anni Settanta
Melania Moltelo

22.10.2021

Gli anni Settanta si presentano come un periodo assai vivace per il femminismo: il lavoro di Raffaella Perna dedicato a questi movimenti (si veda, ad esempio, Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta, 2013) è un lavoro di scopertura degli “archivi ribelli” attento a non proporre semplicemente una lista di nomi di donne da assimilare a un modello dell’arte fondato su criteri maschili, ma a far rivivere lo spirito critico del tempo nella direzione di uno smantellamento dei canoni standardizzati.

Il pensiero femminista è stato fondamentale, in questo senso, nella riscrittura di una storia sottratta al punto di vista dei dominatori, sconfessando la presunta universalità e neutralità delle pratiche discorsive maschili. Il lavoro sul rapporto tra “arte femminista” e politica rende conto del tentativo di esercitare pratiche estetiche in contrasto con le forme d’espressione dominanti e atteggiamenti critici nei confronti delle ideologie che permeano il sistema dell’arte e della cultura.

In questo clima di rottura si può segnalare una particolare attenzione al medium fotografico: la fotografia, come bene mette a fuoco Claudio Marra in Fotografia e pittura nel Novecento, somiglia visibilmente a un quadro e funziona come un ready-made; il ready-made di matrice dadaista, cioè l’oggetto sottratto al suo uso comune e ri-contestualizzato in uno spazio artistico, ha saputo mettere in crisi l’autonomia dell’arte con i suoi corollari di autorialità/genialità dell’artista e di unicità/autenticità dell’opera.

Se la coppia fotografia-ready-made già fa luce sull’orientamento dell’arte contemporanea come messa in discussione degli schemi ufficiali, è opportuno fare un riferimento ulteriore agli studi di Rosalind Krauss sulla fotografia: il carattere indicale della fotografia, che implica una connessione materialmente prodotta dal referente dalla quale deriva uno statuto del segno fotografico come “immagine-impronta”, si distacca dal quadro-icona ancora fondato sui criteri della verosomiglianza e non ancora sull’esibizione epifanica dell’oggetto.

Il medium fotografico, per queste ragioni, viene utilizzato dalle artiste femministe per cogliere la presenza tangibile del corpo: la donna cessa di essere l’oggetto della visione altrui, realizzata attraverso la tradizione pittorica o la comunicazione pubblicitaria e pornografica, per effettuare una riappropriazione del corpo e della sua rappresentazione simbolica. In particolare, è l’auto-ritratto a costituire una pratica imprescindibile per riaffermare un “potere” di auto-narrazione e per rendere critica la rigidità delle immagini convenzionali.

Spesso si tratta di raccontare il corpo come unità frammentata, come corpo mutante: l’utilizzo di specchi e l’arte del travestimento sono strategie per fuggire alla cattura della coercizione identitaria. Ma è già lo stesso auto-ritratto a significare un’esperienza di scissione dell’Io, un’esperienza simil-schizoide.

Si può ricordare, a tal proposito, l’opera L’invenzione del femminile. RUOLI per la cui realizzazione Marcella Campagnano coinvolge le compagne del collettivo femminista milanese in una sequenza di travestimenti e auto-ritratti per evidenziare l’ambiguità dello sguardo e rivendicare la necessità di abbandonare la tendenza a corrispondere e consegnarsi agli stereotipi della visione maschile-maschilista.

I travestimenti di Campagnano e delle compagne, che “recitano” il genere e i ruoli riconosciuti, sono un esperimento fortemente ironico di sottrazione agli incastri socio-politici dominanti.

Nella de-costruzione degli stereotipi della dimensione femminile come legata al sentimentalismo ingenuo e alla vita familiare-domestica e di quella maschile legata, invece, alla ragione e alla partecipazione politica gioca un ruolo importante la produzione dell’artista francese e attiva a Milano dal 1971 Nicole Gravier.

L’artista si autoritrae in una scenografia allestita con cura mentre simula le posture del fotoromanzo, circondata dalle immagini del suo giovane amante o da réclames di prodotti di bellezza, dando vita a un’atmosfera “rosa” e decisamente convenzionale dell’universo femminile: “recitando”, anch’ella, il genere.

Ma a stridere con queste composizioni melense è la presenza di “oggetti fuori posto”: in Attesa, accanto alle pubblicità suddette, è inserita la copia della prima edizione Einaudi del testo di Roland Barthes Sistema della moda. Sono proprio questi elementi “disturbanti” a operare una critica dall’interno dei quadri abituali di cognizione.

In conclusione, si può affermare, con Raffaella Perna, che l’immagine fotografica si è sempre presentata come una delle possibilità più efficaci per aggirare le norme astratte del linguaggio maschile, a partire da una perlustrazione in prima persona della corporeità e delle sue zone d’ombra.

Questo sguardo sugli anni Settanta del secolo scorso, oltre a costituire un’occasione di riscoperta di una serie di attività generalmente trascurate, ci restituisce una verità sull’atto di creazione: ogni opera autenticamente sovversiva è in rottura con i procedimenti usuali del fare artistico.