Forme estetiche e società ipermoderna
Vanni Codeluppi
07.07.2024
Il brano che segue è il testo introduttivo al volume Forme estetiche e società ipermoderna, a cura di Vanni Codeluppi, edito da Meltemi.


Estetica e capitalismo


Vallette e veline hanno sopraffatto maestri ed educatori, simulacri ormai solo di se stessi.
Alberto Abruzzese,
Delle cose che non si sanno si deve dire


Il capitalismo estetico

Il mondo dell’arte ha sempre operato all’interno della cultura occidentale come il principale spazio sociale in grado di generare bellezza. Nel corso degli ultimi decenni, però, tale mondo è entrato in crisi e si sono pertanto progressivamente moltiplicate le fonti sociali di esperienza estetica. Di conseguenza, è cambiata la percezione dell’estetica, sempre più considerata una forma di aisthesis, cioè di sensibilità in senso lato, di forma di conoscenza della realtà che si basa principalmente sui sensi del corpo umano. Ciò è avvenuto perché il sistema capitalistico, da un lato, ha esteso socialmente il processo di mercificazione, ridimensionando il ruolo tradizionalmente svolto dall’arte (Abruzzese, 1973), dall’altro, ha sviluppato una concezione dell’estetica finalizzata alle proprie necessità produttive. Ne è derivata una crescita dell’importanza sociale del design relativo agli oggetti realizzati e commercializzati da parte delle imprese (Sudjic, 2009).

Com’è noto, Walter Benjamin (1966) aveva denunciato quasi un secolo fa la capacità del processo d’industrializzazione di fare scomparire il carattere unico e prestigioso dell’opera d’arte, la sua “aura”. Ora però appare con grande evidenza che, come hanno messo in luce Gilles Lipovetsky e Jean Serroy (2017), al posto di un sistema basato sul carattere specifico di ciascuna opera d’arte viene progressivamente a installarsi il sistema industriale del “capitalismo artistico”. Un capitalismo le cui prime manifestazioni risalgono alla seconda metà dell’Ottocento e si sono intensificate nel corso degli ultimi decenni. Un periodo nel quale esso ha generato una vera e propria condizione “transestetica” (Baudrillard, 1991), che si fonda sulla combinazione e sul rimescolamento degli ambiti e dei generi, ma anche sull’iperbole e sulla ricerca di eccessi. Per Lipovetsky e Serroy, infatti, nel capitalismo estetico convivono aspetti paradossali: ricerca della bellezza e cattivo gusto, estetizzazione e degradazione dell’ambiente, felicità e ansia. La loro principale tesi, d’altronde, è che il capitalismo si trovi attualmente all’interno di una condizione dominata dal paradosso: più tenta di essere razionale ed efficiente, più è costretto a fare ricorso a ciò che è contrario alla razionalità (emozioni, creatività, estetica). Questo perché ha bisogno delle creazioni artistiche allo scopo di utilizzarle come strumento di legittimazione sociale dei suoi prodotti. In ultima analisi, per continuare a produrre valore economico. Si spiega così perché oggi i fenomeni estetici, pur essendo pienamente autonomi, non siano marginali, ma inseriti all’interno dei principali mondi contemporanei della produzione, della commercializzazione e della comunicazione. Cioè, come ha sostenuto il critico culturale statunitense Fredric Jameson, “la produzione estetica si è integrata nella produzione di merce in generale” (1989, p. 24).

Pertanto, la cultura estetica contemporanea è dominata dal ruolo occupato dalle imprese, le quali, attraverso il complesso delle loro attività di comunicazione e design, contribuiscono a realizzare un paesaggio simbolico in grado d’influenzare profondamente la società (Goldman, Papson, 2011). Le imprese cioè danno vita a un vero e proprio paesaggio di natura estetica che tende ad avvolgere l’intera società e anche a mascherare le contraddizioni che sono presenti all’interno dei processi economici e sociali.

Lo sviluppo nelle società contemporanee di una dimensione estetica articolata e diffusa come quella che è stata sin qui descritta ha progressivamente portato al superamento di quell’idea di armonia che caratterizzava nei secoli scorsi il pensiero occidentale. Un’idea che si reggeva sull’equivalenza tra il Bello, il Vero e il Buono. Negli ultimi decenni, infatti, è risultato sempre più evidente che l’estetica del Bello comporta una forte presenza della complementare estetica del Brutto (Eco, 2004, 2007). E questa doppia anima dell’estetica appare essere particolarmente visibile all’interno dei media contemporanei. Per cui la televisione e il web, ad esempio, generano degli spazi culturali nei quali il Bello e il Brutto convivono pacificamente. Più in generale, sono i mercati dei consumi di massa a rendere compatibile il Bello e il Brutto, a rendere cioè sempre più complesse le dinamiche di estetizzazione del mondo. Pertanto, viviamo in un’epoca dominata dalla ricerca della bellezza per gli oggetti, gli spazi e i corpi (Codeluppi, 2021), ma il Bello deve necessariamente accettare di entrare in comunicazione anche con il Brutto.

Lo testimonia l’arte contemporanea, la quale, pur operando all’interno di un contesto di estetizzazione diffusa, dà frequentemente origine a una vera e propria “antiestetica”, cioè a forme disarmoniche che sono persino in grado di suscitare disgusto. Secondo Alberto Abruzzese (2012), artisti come Maurizio Cattelan, ad esempio, sembrano addirittura prefigurare l’avvento di una crisi della convivenza tra il Bello e il Brutto. Crisi che risulta ancora più evidente se si pensa all’azione che viene esercitata in misura crescente dalle più avanzate tecnologie digitali e dalle correlate reti di comunicazione, perché, come ha affermato lo stesso Abruzzese,

Le reti penetrano e sono penetrate da un’amalgama in cui la carne dei corpi umani è affondata in un territorio ibrido di oggetti, macchine e relazioni che è sempre più difficile immaginare separate e distinte dal soggetto sociale così come costruito dai saperi istituzionali (2012, p. 29).


Consumo, media e flussi

Il capitalismo estetico è stato in grado negli ultimi decenni d’installarsi potentemente nella cultura del mondo occidentale soprattutto perché le società ipermoderne hanno avuto la capacità d’intensificare i loro flussi interni. L’antropologo Claude Lévi-Strauss (1969, 1979, 1992) ha chiaramente mostrato in passato che tutte le diverse forme di organizzazione sociale succedutesi nella storia hanno ampiamente sfruttato la loro capacità di mantenere attivi dei flussi di circolazione delle persone e delle merci. È stato però soprattutto il sistema capitalistico a trovare la sua principale ragion d’essere in tali flussi, che tendono progressivamente a dare vita a un unico grande mercato in grado di consentirne la libera circolazione. Nel corso degli ultimi decenni, pertanto, le società ipermoderne hanno intensificato i loro flussi circolatori, in seguito soprattutto alla necessità del capitalismo di superare gli effetti di quella pesante crisi economica che ha attraversato durante gli anni Settanta (Crary, 2015).

Per attivare quei processi di circolazione che caratterizzano i flussi odierni, si è resa sempre più necessaria la presenza di un “carburante”, cioè di messaggi e significati in grado di attivare il desiderio dei consumatori nei confronti delle merci e di permettere a queste ultime di circolare. Ciò ha reso necessario che i flussi circolatori passassero attraverso dei luoghi come quelli del consumo, che riescono a renderli temporaneamente visibili e in tal modo ad amplificarne la capacità comunicativa. A partire dalla Parigi della seconda metà dell’Ottocento (Abruzzese, 1973), le grandi metropoli hanno svolto un ruolo centrale in questo processo, grazie alla loro ampia dotazione di luoghi del consumo, ma anche di attrezzature per le comunicazioni e di potenti arterie di trasporto terrestre o aereo a grande velocità. Hanno potuto pertanto inserirsi più facilmente all’interno del flusso globale delle comunicazioni. Conseguentemente, si è sviluppata una rete di “megacittà globali” che ha consentito e incentivato la circolazione internazionale di capitale, merci, design, moda, pubblicità, arte, cinema, musica e linguaggi.

L’odierna ossessione sociale per i flussi tende però soprattutto a sviluppare quelle aree territoriali che, come le metropoli, favoriscono gli spostamenti ad alta velocità di merci e persone. Si tratta solitamente di aree extraurbane nelle quali vanno a collocarsi i principali luoghi del consumo, i quali hanno la necessità di sfruttare i punti di massima intensità dei processi di circolazione. Ecco perché è soprattutto fuori dagli insediamenti urbani che vengono da tempo realizzati i centri commerciali e gli altri luoghi del divertimento (lunapark, parchi a tema, ecc.), cioè le “supermerci”, particolari architetture collettive adibite ad attività legate all’acquisto che contengono al loro interno svariate migliaia di merci e devono necessariamente presentarsi anch’esse come merci di notevoli dimensioni e dotate dalla capacità di attirare consistenti masse di persone (Codeluppi, 2014).

Com’è noto, è la pubblicità a catturare i significati già esistenti nell’immaginario collettivo, grazie anche al lavoro di produzione svolto dai media, e ad associarli direttamente alle merci vendute sul mercato. Se ciò però avviene, è soprattutto perché i media contemporanei – la radio, la televisione e soprattutto il web e le piattaforme digitali (Van Dijck, Poell, De Waal, 2019) – utilizzano come modalità primaria di funzionamento la comunicazione di flusso. Prima di tali media, infatti, i messaggi del sistema delle comunicazioni erano definiti da precisi confini e ciò rallentava la circolazione dei flussi. Giornali e manifesti, ad esempio, proponevano messaggi che prevedevano una fruizione concentrata e dotata di limiti temporali. Il modello dominante, insomma, era quello dell’opera d’arte, fruibile soltanto all’interno di una specifica cornice. I media contemporanei hanno invece introdotto e progressivamente sviluppato un modello imperniato sui flussi comunicativi. Un modello cioè che fa perdere di coesione alle singole unità testuali, le quali si avvicinano pertanto sempre più tra loro, anche se, come ha sottolineato già diverso tempo fa Raymond Williams (1981), quello che viene solitamente costruito è un “flusso programmato”, vale a dire progettato e organizzato con attenzione da parte di chi lo emette. È però soprattutto il digitale che, da quando ha cominciato a diffondersi, ha progressivamente rafforzato e intensificato il modello basato sui flussi. Esso, infatti, tende a creare degli ambienti aperti nei quali s’indeboliscono i confini tradizionali e vengono perciò facilitati i processi di circolazione (Codeluppi, 2022).

Va d’altronde considerato che un sistema mediatico basato sui flussi è efficiente perché gli individui vengono in qualche misura “fluidificati” a loro volta. Appare evidente infatti che le dita che toccano gli schermi digitali tendono a rendersi sempre più autonome dalla coscienza individuale. Solitamente sfiorano appena invece di toccare, perché le reazioni dei corpi umani hanno la necessità di essere veloci e sintoniche con la tecnologia. Siamo dunque di fronte a una forma di sensorialità soft, dove il coinvolgimento dei corpi è minimo e anche quello delle menti degli individui.


Verso il simulacro integrale

Nello spazio culturale delle società ipermoderne, i processi circolatori dei flussi sono facilitati anche dalla forte presenza di simulacri. I quali, essendo delle entità totalmente artificiali, dispongono di una grande libertà di movimento. Com’è noto, il concetto di simulacro viene da lontano e risale probabilmente al filosofo greco Platone, che lo considerava capace d’ingannare i sensi degli esseri umani. Nella storia del pensiero se ne sono occupati numerosi autori, ma negli ultimi decenni il suo ruolo sociale è diventato decisamente più significativo. Ed è stato soprattutto il sociologo Jean Baudrillard (1979) a sostenere che le società ipermoderne sono principalmente caratterizzate da un processo di moltiplicazione dei simulacri, intesi come copie di copie che si rinviano senza fine le une alle altre, copie delle quali non esistono più gli originali. Proprio per questo motivo, tendono a far precipitare l’intero sistema sociale in uno stato di confusione e indeterminatezza. I segni contenuti nei messaggi non sono più in grado di svolgere nella società quel ruolo di tipo comunicativo dipendente dalla loro capacità di rappresentare la realtà che era stato individuato dai linguisti e dai semiotici. Non sono più in grado pertanto di rimandare a dei referenti concreti, ma si sviluppano all’interno di una dimensione puramente astratta.

Baudrillard era convinto che persino un evento estremo come la guerra dovesse essere considerato un simulacro (Codeluppi, 2020). Era chiaro come tale autore fosse consapevole della capacità della guerra di generare degli effetti devastanti sulle città e sulle vite umane, ma intendeva affermare che in un’epoca dominata dai simulacri la guerra ha profondamente modificato la sua natura. Siamo di fronte infatti, come viene dimostrato anche dalla guerra in corso tra la Russia e l’Ucraina, soprattutto a una guerra “tra macchine”, cioè a missili contro missili e a carri armati contro carri armati (Bennato, Farci, Fiorentino, 2023). E a una guerra combattuta da droni comandati a distanza da un soldato con uno schermo davanti e un joystick in mano, come se fosse un qualsiasi giocatore di videogiochi. Soprattutto, però, siamo di fronte a una guerra combattuta dai contendenti sul piano dell’immagine prodotta nello spazio mediatico. La guerra, insomma, è sempre stata anche una lotta di propaganda, ma oggi appare ancora più evidente come essa venga attentamente gestita rispetto a quelli che possono esserne gli effetti sull’opinione pubblica.

In precedenza, tutte le culture si sono poste il problema del rapporto con le forme illusorie di rappresentazione della realtà e hanno spesso utilizzato le creazioni artistiche come uno strumento per poterle collocare in uno spazio definito e controllabile e tentare perciò di limitarne gli effetti disorientanti prodotti sul piano sociale. Oggi però le attuali società fortemente mediatizzate stanno compiendo un ulteriore passo in avanti da questo punto di vista, in quanto stanno creando il mondo dei “simulacri integrali”. Nel mondo digitale contemporaneo, infatti, compaiono sempre più frequentemente anche dei simulacri che sono in grado di costruirsi un loro originale, vale a dire di certificare autonomamente la propria realtà e la propria autenticità. Infatti, come ha affermato Èric Sadin, il digitale contemporaneo ha la capacità di fondare e istituire una propria forma di verità, perché “prende atto della sua facoltà di proferire verbo, proferire logos, al solo scopo però di garantire il vero” (2019, p. 10). Siamo dunque di fronte a un vero e proprio cambiamento nello statuto del simulacro, perché non si tratta più di aver a che fare con un rapporto tra realtà e modello di rappresentazione, ma di un rapporto diretto tra modello e modello.

Ne consegue che stiamo assistendo anche a un processo di vero e proprio “tramonto della realtà” (Codeluppi, 2018), vale a dire che, com’è noto, i media tendono a costruire un mondo privo di problemi e decisamente più piacevole rispetto a quello vero. E se il mondo che attrae è quello collocato dentro gli schermi, scompare nelle persone la necessità di vivere direttamente le esperienze. Così, nel tempo, la realtà fisica viene progressivamente sostituita da quella artificiale generata dai media. La distanza tra gli esseri umani e i media tende ad annullarsi e anche gli individui in carne ed ossa vengono sostituiti da simulacri che li rappresentano all’interno della fruizione mediatica.

Ci troviamo dunque sempre più di fronte a persone che si accontentano di quello che possono trovare negli schermi. Perché hanno paura di affrontare delle esperienze reali o perché non vogliono correre il rischio di rimanere delusi rispetto a quel mondo perfetto che è presente all’interno dei media. Perfetto in quanto è privo d’inconvenienti e promette di lasciarsi pienamente controllare. In realtà, si tratta di un’illusione, perché chi controlla effettivamente i media si trova non da questa parte dello schermo, ma dall’altra. E soprattutto la vera realtà sociale rimane ancora là, con le sue situazioni spesso dotate di un carattere drammatico e di una forte imprevedibilità.



© Vanni Codeluppi (a cura di), Forme estetiche e società ipermoderna, Meltemi 2024