Filosofia, infine e sempre
Ubaldo Fadini

04.10.2021

Perché “non farla finita con la filosofia”? Non voglio qui semplicemente rinviare all'impresa, tentata con studiosi di diversa provenienza, che si è concretizzata in un testo che porta appunto quel titolo (Clinamen, Firenze 2021).

Mi interessa infatti soprattutto riflettere sul perché della filosofia nel contesto della “mia” (?) condizione singolare di studioso, del fare una particolare esperienza della “oggettività” che mi riguarda, in un qualche modo...

I tre puntini indicano una condizione incerta, forse un bisogno di sospensione, che affronto tenendo a disposizione alcune pagine di Herbert Marcuse e di Theodor Wiesengrund Adorno che possono essere impiegate per affrontare il tema “classico” della attualità/razionalità della filosofia.

Tema “classico” all'interno di tradizioni di pensiero critico a cui si può far ancora produttivamente riferimento, insieme ad altro: ovviamente per cercare di fare i conti, d'impegnarsi in un vero e proprio a corpo con la contingenza che ci tocca, che investe la nostra sensibilità e intelligenza, ai diversi livelli del loro manifestarsi (sempre più in tenuta di combattimento, mi verrebbe da dire, in condizioni di urgenza e di crescente precarietà nella odierna riformulazione iper-normativa, sotto veste di “controllo”, delle dimensioni dell'esistere individuale e collettivo).

Ancora mi vengono in mente, come ripeto spesso, le osservazioni di Niklas Luhmann sul fatto che nelle organizzazioni non si muore mai: in particolare a proposito del mio introdurmi all'interno degli spazi del mio Dipartimento, dei super-luoghi (mi hanno atterrato i non-luoghi di Marc Augé!) che richiedono il possesso (da vero e proprio invasato ricercatore di sicurezza a tutti i costi...) di lascia-passare che tutto fanno piuttosto che lasciare qualcuno al suo destino, colorato da qualche segnale di carattere differente, minimamente “eccentrico”.

Ecco, appunto. La filosofia diffida dei lascia-passare. Quando da qualche parte si esprime una certa simpatia per quella particolare condizione, allora si può effettivamente pensare, a buona ragione, che la filosofia (certamente e giustamente condizionata dalle tesi marxiane) non riesca più a qualificarsi infine praticamente attraverso il suo realizzare concetti di fronte a situazioni problematiche, assumendo di fatto tutte quelle posture che ne indicano una apparentemente irrimediabile messa a servizio di, nel senso proprio di ciò che deve risultare conforme.

In un suo contributo del 1931 sull'attualità della filosofia, Adorno sottolineava tale resa alla subalternità affermata come inevitabile nel qualificarsi plurimo della filosofia nei primi decenni del secolo scorso: rispetto soprattutto alla crisi dell'idea-chiave della grande stagione dell'idealismo, vale a dire “che sia possibile afferrare la totalità del reale con la forza del pensiero”, proliferano le filosofie scientifiche, le variabili in cerca di rigore del neokantismo che si risolvono nel paradosso della acquisizione del carattere eterno del temporaneo, il recupero cosciente del primato, in qualche sua veste, della gestualità fenomenologica, in particolare nella versione heideggeriana, senza dimenticare il tentativo d'individuare e raccogliere gli impulsi vitali rilevati dalle correnti della Lebensphilosophie.

In termini quasi criptici, Adorno rileva le conseguenze del dissolversi della pretesa di adeguatezza del pensiero all'essere e quindi il venir meno o perlomeno il divenire inaccessibile di una “idea” appropriata dell'ente, del fenomeno, che si presenta agli occhi dei moderni soltanto nella forma del frammento, per non dire: della “rovina”, dell'espressione di un frantumarsi raccolto unicamente nel complesso di immagini della nostra esistenza rappresentate “veramente” dal decorso storico.

C'è la magistrale lezione benjaminiana dell'Origine del dramma barocco tedesco, il rinvio alle tesi di György Lukács sul romanzo (nella sua Teoria del romanzo) piuttosto che a quelle di Storia e coscienza di classe, dietro, tra l'altro, a queste considerazioni adorniane rivolte, mi pare, a chiarire il perché del nostro insistito illuderci a proposito del riprodursi ininterrotto di un impegno filosofico risolto nel travestire su un piano ornamentale pensieri costitutivamente “falsi” perché consegnati alla logica di un trascendere a tutti i costi “qualcosa”: a partire dall'impulsionale esserci vitale, così destinato a riconoscere, ad esempio nella prospettiva heideggeriana, la possibilità del suo esprimersi attraverso l'acquisizione di una consapevolezza pure minima del valore a un certo punto dell'impossibilità del possibile, appunto espresso dalla trascendenza “oscura e cieca” per definizione: quella della morte.

Non voglio però farla troppo complicata. La questione centrale è in fondo semplice: è possibile intendere la filosofia come attuale dopo il fallimento della filosofia della totalità?

Così Adorno, che cerca di rispondere materialisticamente cogliendo il rapporto stretto tra la parzialità dell'interpretare – ricostruendo, combinando, disegnando “costellazioni”, sempre in senso benjaminiano – gli elementi enigmatici del tempo storico che ci è dato e dovuto e il compito, ai limiti ancora dell'impossibile, del cambiamento, della trasformazione oggettiva della realtà nel momento in cui si ha a disposizione una sua costruzione teorica all'altezza di una pratica che non si limita all'apprezzamento della possibilità della soluzione assicurata dal toglimento dell'enigma: “l'archetipo delle soluzioni” è sempre e soltanto la “prassi materialista” e non si può pensare di prescindere da ciò.

In Marcuse, si pensi qui al testo della prolusione tenuta presso l'Università della California di San Diego nel febbraio del 1966 (tradotto in H. M., Lezioni americane (1966-1977), Mimesis, Milano-Udine 2021), il discorso è ancora più lineare, nel momento in cui l'interrogativo è quello della “razionalità” o meno della filosofia.

L'autore di Eros e civiltà delinea un'idea di filosofia che si confronta con (esperisce!) i fatti, i casi, le relazioni che concernono la condizione umana. La sua esperienza specifica è quella della rilevazione della contraddizione esplosiva tra il potenziale e il reale, che si presenta come il conflitto più radicale riguardante la vita umana.

Rispetto a tale conflitto non si può che prendere atto che la nostra coscienza – che si confronta con una oggettività complessiva (non con un “dato”) contrassegnata da quelle logiche di funzionamento del capitalismo che la rendono effettivamente “infelice” – non può che risultare a sua volta triste, appunto ancora “infelice” perché avvilita/mortificata dall'imposizione a confrontarsi unicamente con i fatti costituiti, gli unici considerati “reali”, e non anche con ciò che li trascende, con il piano molteplice, inesauribile, dei “fattori”, dei potenziali.

Di seguito propongo una selezione assai parziale di alcuni “passi” marcusiani che a mio modo di vedere muovono nella direzione di una ri-affermazione della filosofia come pensiero che coglie la verità nella ricerca dei potenziali di trasformazione, mettendo in primo piano la facoltà dell'immaginazione (non è affatto vero, come sostengono i risentiti/rancorosi e i cantori di tutto ciò che appare strumentalmente come “bene” istituito, che l'immaginazione sia già ([al] potere):

“All'opposto, la filosofia nega che i fatti costituiti siano tutti i fatti. Inoltre, per l'esperienza filosofica i fatti sono negativi nella misura in cui negano, distorcono, le vere possibilità dell'uomo, le quali, se realizzate, liberebbero l'esistenza umana dall'ignoranza, dalla schiavitù, dalla falsità. Di conseguenza, la 'verità' risiede in ciò che è potenziale piuttosto che in ciò che è reale e non appartiene solo all'ordine del pensiero, non è solo una qualità degli enunciati, ma anche una qualità della pratica”.

“(...) la domanda filosofica riguarda le condizioni in cui l'uomo può soddisfare al meglio le sue peculiari facoltà e aspirazioni”.

 “L'immaginazione è la facoltà di ricordare e riconoscere rappresentazioni di oggetti che non sono immediatamente presenti. L'immaginazione, quindi, non solo rende possibile l'esperienza unitaria di un universo comune, ma, inoltre, progetta modi nuovi e alternativi di ordinare razionalmente la realtà umana, l'uomo e la natura, sulla base del ricordo dei fatti e 'sperimentando' le loro possibilità reali. L'immaginazione è la facoltà razionale della libertà”. 

“In quanto concetti filosofici orientativi, Ragione e Libertà sono identici. Ragione: la facoltà intellettuale di comprendere i fatti e i fattori che producono i fatti. Libertà: la facoltà di pensare e agire secondo questa conoscenza, riconoscendo e superando la 'negatività' dei fatti dati in una ricerca continuamente rinnovata di un ordine più razionale. In ogni stadio decisivo dello sviluppo del pensiero, la libertà di pensiero comincia come pensiero filosofico e critico. Filosofia significa una liberazione del pensiero da fatti e condizioni irrazionali che riducono a schiavitù”.

E infine: “La filosofia (…) non può trasformare il mondo. Tuttavia, nella misura in cui la filosofia si basa su un'esperienza non mutilata e non purificata ed è capace di guardare alla totalità dei fatti, cioè tanto ai fatti quanto ai fattori dietro di essi, tanto al potenziale quanto al reale, tanto alla razionalità del 'dovere' quanto all' 'essere' – il 'dovere' e il 'potenziale' non come obblighi morali o trascendentali, ma come possibilità e imperativi storici 'reali' –, la filosofia può comprendere il mondo in un modo più radicale di qualsiasi altra scienza”.

La filosofia connessa con la pratica, restituita alla sua “impurità” di fondo (per i poteri dati), ha idealmente questo compito, di affermare la possibilità concreta della trasformazione storica, nonostante “tutto”, attraverso quei suoi svolgimenti reali che guardano anche e soprattutto ai potenziali che rendono l'istituito non dato una volta per sempre, ri/velandolo come provvisorio, temporaneo, revocabile. E' anche per questo che non si deva farla finita con la filosofia.