Femminismo di potere e femminismo “minoritario”
Melania Moltelo

16.04.2022

È nei momenti di crisi che si misura la resistenza di un pensiero, che si fanno i conti con l’irriducibilità dei posizionamenti. Il femminismo, in questi anni difficili, ha costituito forse l’ultimo centro propulsore di teorie e pratiche contro-egemoniche, manifestando una considerazione lucida nell’analisi dei nodi critici dell’esistente e non perdendo di vista le dinamiche effettive del dominio. Ma, insieme alla “forza” (che non si riduce mai ad affermazione di potere) del femminismo come pensiero in grado di produrre discorsi non assimilabili a una tradizione appestata di morte, la crisi ci ha messo addirittura di fronte alla cattura di posizioni dichiaratamente femministe nelle miserie della guerra. Ma di che femminismo si tratta in questo caso?

Mi viene da definirlo “femminismo di potere” in quanto assume il “valore” per eccellenza di una cultura declinata dal punto di vista patriarcale (quella, appunto, della “presa del potere”) e contro cui il femminismo ha storicamente lottato per terremotare l’ordine: si tratta di un femminismo chiacchierato, ospitato nei salotti, imbrigliato nella cattura mass-mediatica. È, in sintesi, un femminismo che non fa paura perché si lascia facilmente neutralizzare dalle strategie “politiche” vigenti.

Mi piacerebbe ricordare, allora, che negli anni Settanta le donne di Rivolta hanno già colto puntualmente questo inganno, cioè la debolezza di un pensiero che fa la corte alla visibilità come criterio maschile-maschilista di validità di una collocazione; basti pensare alla radicalità del loro Secondo Manifesto e a un passaggio che mi ha sempre colpita particolarmente: “più ti occupi della donna e più mi sei estranea”.

Questa citazione si chiarifica ulteriormente con un testo di Marta Lonzi in cui si può leggere, a proposito di quelli che ho qui definito sinteticamente “femminismi di potere”, che “la loro crescita non disturba il mondo maschile perché in pratica ne riconferma i valori, creando solo il disturbo di una nuova ripartizione. Da qui l’adesione e l’apertura dimostrate dagli uomini, in particolare di cultura, verso queste posizioni così rivoluzionarie da lasciare il tutto riconfermato nella sostanza” (M. Lonzi, Diritti della mia soggettività).

Questo pericoloso processo di assimilazione trova altresì un luogo idoneo alla sua attivazione nel campo delle arti in cui “occuparsi della donna” finisce con il convertire il contenuto di un’opera “impegnata” in una consacrazione del vigente. È un meccanismo che Marco Scotini, con il contributo di Elvira Vannini che mi piace ricordare, ha definito “art-washing” (M. Scotini, Artecrazia; E. Vannini, Hotpotetoes.it): l’istituzionalizzazione neoliberale del femminismo che trova nell’estetica uno dei suoi territori privilegiati. In questa impostazione il riferimento femminista non può che scadere a istanza “decorativa”, danneggiando i potenziali di trasformazione sociale che ne hanno sempre caratterizzato la spinta. Alla visibilità di un certo femminismo mainstream si contrappone il separatismo produttivo di Rivolta o il “margine” dell’elogio di bell hooks come condizione materiale di sottrazione nella quale immaginare alternative radicali.

È in questo spazio “altro” che prende forma un linguaggio “minoritario” nel senso deleuziano del termine, che ho sempre avvertito politicamente come espressione non catturabile dai linguaggi di Stato e, dunque, costitutivamente resistente (dove “resistere” può significare stare ancora dalla parte della vita…). Deleuze dice nelle conversazioni con Claire Parnet che “il problema è quello di un divenire-minoritario: non mimare, non fare o imitare il bambino, il folle, la donna, il balbuziente, lo straniero, ma diventare tutto questo, per inventare nuove forze e nuove armi”; per cui la resa “ufficiale” del femminismo significa la sconfitta della sua potenza contrastante.

Chiamo ancora in causa Carla Lonzi per tenere a mente il suo rifiuto, difeso a ogni costo, di assumere la posizione del vincitore scardinando così l’ordine simbolico e valoriale prodotto e legittimato da/in una società del dominio. Abbiamo sentito ormai parlare degli oppressi con la lingua mortifera dell’oppressore, visto donne fare il mimo al patriarca dalle televisioni, cioè identificarsi a pieno in una cultura che si è già dimostrata ricettacolo di guerra e sangue. La nostra forza di fronte a questa cultura spietata del potere sta, per riprendere un’ultima volta Lonzi, nel rifiutarla.