11.01.2021
Femminismi, generi, corpi
Tiziana Villani
Prevale, in questo nostro presente soffocato non solo dalla pandemia ma dalle narrazioni dominanti, un grave sentimento di smarrimento, meglio di disorientamento che prevale soprattutto negli ambiti di quel pensiero critico che non riesce più a riformularsi. Molte sono le analisi che hanno individuato i molti nodi irrisolti delle nostre società segnata da crescenti diseguaglianze e ingiustizie di genere, classe, razza, eppure un progetto d’insieme stenta a formarsi. Le “micropolitiche”, (Deleuze G.-Guattari F., Mille piani, 1980), le forme di resistenza, di mutualismo pur interessanti nelle loro pratiche, e necessarie in fasi di emergenza, non sono in grado di creare un piano di pensiero e di azione capace di misurarsi con quanto accade.
Potremo così riprendere alcune riflessioni di Mark Fisher contenute in Il realismo capitalista: “Se il realismo capitalista è così omogeneo e se le forme attuali di resistenza risultano così vane e impotenti, da dove potrebbe venire una vera rimessa in discussione? Ogni critica morale del capitalismo che ne sottolinea come questo porti sofferenza, non fa che rafforzare il realismo capitalista. Si può presentare la povertà, la fame e la guerra come facenti inevitabilmente parte della realtà e la speranza che queste forme di sofferenza possano essere eliminate può facilmente passare per un ingenuo utopismo. Il realismo capitalista non può essere attaccato se non si dimostra in un modo o in un altro la sua inconsistenza e il suo carattere indifendibile; ossia ciò che è apparentemente ‘realista’ nel capitalismo si verifica non essere nulla di tutto ciò” (Fisher M., Il realismo capitalista, 2009, p. 23). Dunque non si tratta più di resistere, quanto di disfare i marchingegni di questa megamacchina (Gorz A., Ecologia e libertà, 1977) insensata. Si tratta forse di chiarire il piano di un sociale costituito da identità i cui processi di inclusione ed esclusione hanno acquisito il consumo come status principale della propria certificazione di esistenza. I rapper più recenti, gli influencer, i manager dei multimedia declinano e spingono fino all’estremo la rappresentazione dei meccanismi di consumo e mercificazione elevandone in modo estremo la valenza simbolica. Rispetto a questi nuovi codici drammaticamente inconsistenti si leva da più parti la marea degli esclusi, migranti, black, donne, poveri che pur essendo maggioranza riescono a malapena a scalfire questi dispositivi di nientificazione.
I movimenti femministi che, nella varietà delle loro articolazioni, si sono espressi nelle parti più diverse del mondo, non si limitano a porsi come movimenti di denuncia, piuttosto aprono le piaghe, le ferite che si producono lungo quella fitta rete di limiti, frontiere, ostacoli che disegnano la geografia del nostro tempo. Il “capitalismo dei blocchi” ha come unica finalità la produzione di limiti, controlli e costrizioni in assenza dei quali non riuscirebbe ad esercitare il suo dominio che non si esaurisce certo nella narrazione del consumo come unico obiettivo di vita. I movimenti femministi odierni fanno i conti proprio su questo terreno che è tutto fuorché un piano di mera “resilienza”. Si tratta piuttosto di operare in una zona grigia, in un’ecologia grigia (Virilio P., Velocità e politica,1977) della trasformazione in cui le componenti razziali, di genere, sociali sono chiamate ad interrogarsi sulle proprie condizioni materiali immediate e sulle prospettive necessarie. I generi che sgretolano ogni opzione dualistica, i razzismi sempre in agguato, le discriminazioni non appartengono soltanto agli scenari post-coloniali o neo-coloniali, quanto al controllo delle masse sempre più eccedenti riguardo alle precedenti forme di governamentalità (Foucault M., Sicurezza, territorio, popolazione, corso tenutosi al Collège de France, 1978)
Ma “l’inconsistenza del capitale” si riversa propriamente sulle vite, sui corpi di tutti coloro che ne vengono investiti, su un sociale incapace di oltrepassare spesso i confini della protesta. Questo significa che ci si riesce a mobilitare attorno a istanze immediate di iniquità sempre più diffuse, ma non si arriva a mettere in discussione il movimento intrinseco della “megamacchina”, i suoi meccanismi di autoproduzione. Spesso i movimenti operano attraverso percorsi di “rammendo” o a partire da “saperi situati”, come indicato da Haraway (Haraway D., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, 2019) restando pertanto all’interno di dinamiche di compatibilità per quanto radicali possano essere.
I movimenti femministi dall’est Europa al Latino America, negli U.S. sviluppano invece una critica diversa, forse perché alle discriminazioni di razza, genere, classe si aggiunge una consapevolezza ulteriore che riguarda il regime di uso, possesso e sfruttamento cui le donne da sempre sono sottoposte, ma che in questo momento incontra una recrudescenza particolare, determinata da una debolezza di un maschile, e non solo di un patriarcato, fragilizzato e nevrotico che non riesce più a orientare un proprio ruolo significativo né nell’ambito della sfera personale, né in quella sociale.
Questa recrudescenza mette a nudo un piano di impotenza che opera attraverso meccanismi di odio, possesso, narcisismo delirante in cui le donne vengono intese non solo come oggetti, proprietà privata, ma come “cose” che non si riesce più a tenere nel recinto del dominio.
La scrittura e riscrittura del corpo delle donne in questi ultimi tempi si è espressa in modi diversi, in Europa dell’Est le leggi sull’aborto etc. hanno teso a far prevalere la logica del possesso e della privatizzazione dei corpi e delle vite delle donne. La consapevolezza di essere considerate merce, oggetto d’uso e di scambio ha però prodotto in questi movimenti livelli di consapevolezza molto più ampi, tra cui il ripensamento delle soggettività, dei diritti, della sessualità, del lavoro e della libertà. Certo esiste una questione “razziale” che attraversa il femminismo bianco e quello “de-coloniale”, certo autrici come Vergès (Vergès F. Un féminisme décolonial, 2019) hanno messo a nudo come il processo di colonizzazione abbia teso a mantenere le discriminazioni sociali partendo dalla qualificazione della razza come primo discrimine, tuttavia le donne bianche borghesi privilegiate, le donne “razzializzate” dalla cultura dominante, le donne del Rojava in lotta politica per l’indipendenza dei propri territori non possono però evitare dal convergere su una comune condizione che chiama in causa il genere, i generi come problema fondamentale. Ovviamente le possibilità di cui può godere una donna bianca borghese sono altre rispetto a donne che vivono le molte violenze cui si accennava prima, tuttavia è nelle guerre, di qualsiasi natura esse siano, che il marchio della violenza si scrive in primis come forma di sprezzo sui corpi delle donne, dei bambini, degli esposti e lo stupro ne è l’atto determinante che impone lo strazio e l’umiliazione, insomma il rituale della “caccia infinita alle donne”, in un rimando possibile agli studi di Chamayou (Chamayou G., Le cacce all’uomo, 2010), potere e potenza non cessano di scontrarsi.