Fantasticheria
Ugo Cornia

19.06.2022

Quella fantasticheria di una città senza più uomini, dove nessuno uscisse mai da una porta di casa e allo stesso modo non si vedesse neanche qualcuno che passeggia in qualche strada, in particolare riferita a Modena, come se la città di Modena fosse stata colpita da qualche grande e inimmaginabile sciagura da film di fantascienza, o da film horror, una qualche pestilenza che avesse reso Modena completamente priva di abitanti, io ancora non l’avevo mai fatta. Una città svuotata, cioè una rovina di città, una Città Cadavere, in realtà mi sarebbe capitato di immaginarla all’improvviso qualche anno dopo mentre ero a letto un pomeriggio, intento a leggere un interessante testo di un filosofo che parlava di svariati argomenti, nel quale avevo incontrato alcune righe che narravano del nuovo sguardo prodotto dal sapere anatomico, dove si diceva che “in effetti, nelle viscere aperte del cadavere, nulla lascia trasparire un’inclinazione per un’esistenza in stretta relazione con altri”, e queste righe, nelle quali si metteva in relazione la scienza anatomica come visione del cadavere col prodursi dell’idea dell’individuo, avevano poi fatto arrivare nel mio cervello, immediatamente e seguendo le vie più strane dell’immaginazione, forse per l’accostamento concettuale del “cadavere” con la “relazione con altri”, questa grande fantasticheria di una città cadavere, cioè, non so il perché, ma queste grandi visioni immediate di lunghi viali svuotati, senza niente, lunghe prospettive di edifici, anche con alberi, ma senza niente di animale che ci si muova dentro, nessun uomo, né un cane, né un gatto, ma neanche uccelli che volassero da un albero all’altro, o nel cielo. Quello che avevo di colpo contemplato, in uno sguardo mentale durato alcuni momenti, anche se non so il perché in quanto zona da me mai troppo frequentata, era stato dapprima il viale davanti al foro Foro Boario, viale Berengario, senza che ci passasse neanche una macchina, e, come dicevo, non c’erano poi neanche passanti o cani o uccelli, niente che si muovesse né per terra, né per aria; e un attimo dopo, probabilmente a causa della vicinanza con viale Berengario, il parco Novi Sad, anche lì tutto completamente privato di qualsiasi movimento, e diventato una distesa d’erba decisamente immensa in quanto inutile sotto un gran cielo completamente fermato. Ugualmente svuotati e immobili anche viale Reiter, il Parco, i viali della periferia, e tutta la Modena che avevo mentalmente contemplato a questo modo, in tutta la sua purezza di grande sequenza di edifici ormai senza alcun senso, e quindi i piccoli pezzi morti di questa più grande Modena cadavere, di cui guardare tutto lo svolgimento di queste specie di intestini-strade e di polmoni-case, svuotati e fermi.

Fantasticheria questa, come avevo detto, per me completamente nuova e inaspettata se applicata a Modena, cioè alla mia città. E poi mi ero anche immaginato di arrivarci in una Modena simile, perché pur avendola già vista nei minuti della fantasia precedente, dove come appena detto, avevo già contemplato viale Berengario e zone limitrofe, io poi, come se non avessi ancora visto niente, la fantasia mi era ripartita in un modo tale che io a quel punto stavo arrivando a Modena in macchina, dalla via Emilia ovest, come se ci stessi arrivando da Reggio Emilia, e ci arrivavo da solo, ovviamente con un mezzo individuale perché sarebbe stato impossibile arrivarci in treno, visto che un treno implica altri esseri umani che lo fanno funzionare e che ci stanno dentro, e quindi in questa Modena completamente svuotata, e qui non era più neanche importante sapere perché a un certo punto la città si fosse completamente svuotata di ogni forma vivente, e comunque in questa città svuotata a un certo punto uno arrivava da Reggio, in macchina, per la via Emilia, e passava in mezzo a tutta quella zona tra la Rossi-Motoriduttori e altre fabbriche e concessionarie varie, poi faceva il semaforo della Madonnina, ormai spento, e arrivava al cavalcavia del bowling, per fare poi la discesa del cavalcavia, che in fondo alla discesa il centro della città inizia ad apparirti, e così via. Il tutto senza incontrare niente, unici rumori che sentivi i rumori che fa il mondo nel corso del suo funzionamento naturale. E tra l’altro, pur arrivando in macchina, io andavo pianissimo, forse non facevo neanche i trenta all’ora mentre mi guardavo fuori dai finestrini tutta questa cosa immobile. Così sarebbe stato l’arrivarci in macchina. Invece se uno fosse arrivato a piedi sarebbe stato tutto diverso; pensavo a uno che arrivava da nord, da via Canaletto, e andava verso il cavalcavia della stazione, e lì si sarebbe trovato sulla sua destra tutta quella zona dell’ex-consorzio agrario che è stata rasa al suolo per farci dei nuovi isolati residenziali, ma che è ancora piena di spianate con erbacce, con qualche vecchio edificio non ancora raso al suolo, ma gli altri vecchi edifici già rasi al suolo, cioè ampie zone momentaneamente allo stato del lasciato andare, e poi, lì in mezzo, due o tre di queste palazzine residenziali di quattro o cinque piani già costruite, una qui e una lì, senza la relativa completa urbanizzazione della zona a renderle immediatamente piene di senso per lo sguardo, e quindi quello che arrivava si sarebbe trovato davanti una specie di zona ancora allo stato di lavori in corso, con tutto provvisorio. Se nella mia testa tutta la fantasia originaria di Modena svuotata e senza alcun vivente dentro era partita sull’immagine di una città completata una volta per tutte, come se prima di svuotarsi per la catastrofe, Modena l’avessero costruita completamente, e l’avessero finita, e appena la città era stata finita fosse arrivata la catastrofe a svuotarla, adesso questa mia contemplazione di Modena in veste di uomo a piedi che arriva a catastrofe avvenuta si svolgeva in questa città svuotata ma ancora completamente provvisoria, dove appariva tutta questa grande zona di futuri isolati, lasciata a metà, ma neanche a metà, a distruzione quasi completa ma a ricostruzione appena iniziata; e infatti poi, questa contemplazione mentale della città mi portava presso il cavalcavia della Maserati, in questa prospettiva un po’ a volo d’uccello, e poi lì di fianco nella zona delle ex-fonderie, anche quella un grande spiazzo di cemento armato, fatto di resti di lastre di cemento armato di pavimenti industriali, con erbacce secche cresciute nelle fessure tra i blocchi, e anche lì due palazzine già fatte, a più di centocinquanta metri l’una dall’altra e piantate in mezzo a questo ancora quasi niente che funzionava un po’ per cazzi suoi sotto un rinnovato influsso naturale e che avrebbe dovuto essere uno stato provvisorio e invece, dopo che la città era stata svuotata, era diventato normale.

In questa fantasticheria di una città svuotata, me ne rendevo conto anch’io, tutto aveva preso una sua piega senza case, le case c’erano soltanto come sfondo delle fughe dei viali, ma non mi era venuto di guardare a come erano messe le tapparelle delle finestre, mezze alzate o abbassate, e la posizione gli scuri, o quante porte fossero rimaste aperte; tutto aveva preso subito la piega dei lunghi viali e degli spiazzi, e quindi, a tutti gli effetti, non era stata anche una fantasia di case svuotate, farse per l’inerzia del termine “svuotato”, perché una casa non è svuotata, una casa è vuota; dire di una singola casa che è stata svuotata prende tutto un suo significato particolare rispetto a dire di una casa che è vuota, e io poi di case vuote avevo anche una certa pratica in quanto d’estate, soprattutto nei momento di noia insopportabile, spesso mi era capitato di prendere la macchina per andare in giro, facendo poi quei giri in cui uno non sa neanche dove va, ma spesso va a finire in campagna in quelle strade secondarie dove ormai le case abbandonate abbondano. Ci avevo perso dei mesi a andare in giro così. Tante volte in questi giri avevo visto delle case abbandonate, senza neanche più gli scuri alle finestre, oppure con uno scuro penzolante e l’altro già caduto, qualcuna anche col tetto che iniziava a cedere, porte sprangate o porte completamente aperte o divelte; me ne ricordavo una bellissima di queste case lasciate ormai completamente andare che stava vicino a San Damiano (ce n’era un’altra simile in una strada della bassa, dove ero ritornato due o tre volte, ma adesso non mi ricordo più dove era esattamente, se non che era verso il Secchia), e comunque, lì, vicino a San Damiano, dopo che la strada è passata in mezzo a delle macchie di quercia, a un certo punto c’era un breve rettilineo che alla fine si apriva sul lato in pendio, e dopo c’è una curva a destra, e lì si vedeva, un centinaio di metri più in là, questa casa vecchia, lasciata completamente andare a se stessa, con più in là i resti forse di un fienile. Una volta avevo parcheggiato la macchina al bordo della strada e mi ero incamminato verso la casa, che volevo vedere se si riusciva a entrarci, che era ovvio poi che si poteva entrare perché la porta non c’era più, anche se io poi devo dirlo che a guardare quelle case da di fronte, di pomeriggio, che sei fuori in piena luce, lì davanti a dieci metri dalla casa, e la guardi, in mezzo quella luce strapotente dell’estate, allora il buco nero della porta e i buchi neri delle due finestre di fianco alla porta, diventano così neri che mi è sempre sembrato di stare a guardare in faccia la faccia di un dio morto, occhi e bocca, un vecchio dio morto seppellito lì da un altro dio più forte e più testa di cazzo, con quel nero piantato in gola dei morti a bocca aperta, e a entrare dalla porta mi sembrava di stare a entrargli nella bocca per finirgli in gola a questa faccia di dio morto, con tutto il suo nero dentro.

Invece quando entri e sei dentro, di colpo, nel di dentro della casa c’è di nuovo luce, anche se quella volta lì, da un angolo della prima stanza erano partiti a volare due piccioni, che ci sono spesso dentro le case abbandonate queste furiose partenze di uccelli che iniziano a volare in tondo prima di riuscire a centrare una finestra per la fuga, infatti anche quei piccioni, dopo che mi avevano quasi fatto fare un salto per lo spavento, poi mi avevano fatto due o tre giri quasi addosso prima di centrare una finestra. E dopo che gli uccelli erano andati, di colpo, comunque, tu con la luce di colpo vedevi tutto, i travi, le vecchie pareti decorate, e così via. Ma dopo tre minuti che ero dentro ero andato via anch’io, me n’ero tornato alla mia macchina, avevo acceso, e ero partito. Perché uno, quando entra in quelle case, sempre, almeno io per me è così, quando ci entri dopo un po’ ti arriva quella sensazione che quelle siano le case dei morti; che lì dentro ci siano rimasti dei morti che stanno a guardarti.

Era un po’ quella la sensazione che mi è sempre venuta stando dentro a queste case abbandonate: subito questi uccelli che ti frullano intorno le ali, due o tre giri, e vanno via. Sette secondi di sfrullamento furioso, e dopo silenzio. E dopo, nel silenzio, dei morti che ti stanno a guardare infilati negli angoli.