13.03.2021
Inclusioni. Estetica del capitalocene
Carmen Lorenzetti

Il libro di Nicolas Bourriaud (Inclusioni. Estetica del capitalocene, Postmediabooks 2020) analizza l’arte alla luce dell’attuale epoca di catastrofe ecologica e climatica, causata dallo sfruttamento sfrenato delle risorse, dalla riduzione del vivente a materia e dato
sottomesso alla legge del capitalismo finanziario, che derealizza, astrae e standardizza l’intero mondo. A questa riduzione dell’essere a mera materia l’autore oppone invece una rivalutazione del vivente inteso in senso ampio e inclusivo: prima di tutto i reietti della storia, che sono stati considerati inferiori rispetto all’uomo, secondo una visione antropocentrica e imperialista che ha
diviso il mondo in due parti contrastanti da Platone e poi da Cartesio in poi: il pensiero e la materia ovvero la cultura e la natura.

Questo libro rivaluta e pone al centro proprio la natura intesa in senso allargato e totale, ciò rispetto a cui l’uomo, a partire dall’immagine di Dio creatore e di dominio susseguente dell’uomo sul mondo, ha creato questa fatale cesura. Centrale quindi
diventa l’idea di relazione, parla al proposito di “paesaggio relazionale” e di “antropologia relazionale”, riprendendo la sua fortunata idea degli anni Novanta di arte relazionale, che qui viene allargata dai rapporti sociali a quelli con tutto il vivente animato ed inanimato, comprensivo di batteri, tecnologie, reti e macchine, con un voluto recupero proprio dell’elemento naturale e
del minuscolo, che egli chiama molecolare proprio alla fine del libro, laddove riprende la sua fortunata mostra alla Panacée Di Montepellier del 2018 (Crash-test – La révolution molécolaire) con la descrizione degli artisti compresi in mostra.

Oltre a questa mostra cita la Biennale di Istanbul del 2019 da lui curata e intitolata il Settimo Continente, cioè l’enorme isola di plastica che popola i nostri oceani. Ad una visione culturale basata sulla separazione culturale tra natura e cultura, che ha prodotto le idee create dall’occidente di progresso e l’imperativo della crescita insieme al mito della velocità oppone una visione antropologica basata sulla decolonizzazione, il rispetto e il riconoscimento dell’Altro a partire da quattro pensatori su cui costruisce l’ossatura del discorso: il recupero del pensiero del giovane Marx, l’attenzione di Bataille per il primitivo e il suo
commento di Claude Lévi-Strauss, la lettura di quest’ultimo di Marcel Mauss, fino al ricorso di molte opere dello stesso Claude Lévi-Strauss.

La funzione soprattutto del recupero degli ultimi tre viene fatta in funzione sia antropologica, ma soprattutto estetica: serve a recuperare una “concezione energetica” e una “forza propulsiva” che reincantano il mondo, in base alla quale fa
ricorso alla magia, naturalmente attraverso una coscienza critica. Ma l’arte è proprio questo recupero addirittura del totemismo, dell’idea di animismo che da voce ad una "agency" diffusa, ad una relazione fluida tra i diversi elementi del mondo, in cui l’artista si trova come immerso secondo un’”estetica inclusiva”.

In opposizione ad una topologia che accosta tutto in un’incredibile cacofonia, in una “densificazione” del mondo, le poetiche degli artisti rispondono con una “decrescita estetica” attraverso l’uso del rifiuto e dello scarto, attraverso un’azione di recupero e
archiviazione e di riciclo. In opposizione ancora all’imperativo del produrre e dell’accumulare, gli artisti rispondono con la dispersione, il lusso, l’erotismo e l’essenzialità.

Quest’estetica è quindi in primis un’etica della relazione che attinge i propri esempi nelle civiltà precolombiane ad esempio,
capaci di leggere la molteplicità dei segni iscritti nella natura (sono citati antropologici che hanno studiato queste popolazioni, le foreste, il sonno, la decolonizzazione…) ed è in chiara opposizione rispetto a una linea teorica recente chiamata del “realismo speculativo “ o “pensiero orientato agli oggetti”, perché l’autore vede in questa attenzione, che sfocia in una visione sterile e
fantascientifica, un’ulteriore reificazione dell’oggetto, una linea che non fa altro che ripetere il pensiero di riduzione a merce del vivente del pensiero capitalista, esemplificato dalla mostra curata da Bruno Latour Making things public allo ZKM nel 2005.

Nell’ambito occidentale non è un pensiero nuovo e in questo richiama tutto il pensiero strutturalista e postrutturalista che dal
Nouveau Roman, alla Nouvelle Vague, approda a Foucault e Barthes, con la esemplificazione di tutto questo nel ça parle. Tuttavia questa negazione del soggetto va nella direzione feconda del concetto del primo Foucault di “campo di soggettivazione”, apre ad un pensiero ecologico, di relazioni, compresenze, insomma ad un’antropologia antispecista e antiumanista.

In questo campo inserisce artiste come Mika Rottenberg, Laure Prouvost e Pamela Rosenkranz che operano seguendo, la prima una soggettività oggettualizzata, la seconda una dimensione immersiva (usa spesso l’elemento acquatico infatti), una soggettività sottomessa ad agenti chimici e biologici la terza. Superando l’isolamento e l’alienazione nell’oggetto, propone il concetto di quasi oggetto o iper-oggetto (Timothy Morton) e superando il concetto di forma propone quello di formazione che ha più a che fare con il concetto organico della crescita. Qui inserisce due degli artisti a cui è più affezionato: Philippe Parreno e le sue complesse mostre-macchinario dove una drammaturgia di situazioni viene creata a partire da un algoritmo oppure dalla crescita di batteri.

L’altro è Pierre Huyghe che crea degli ecosistemi complessi e assolutamente autosufficienti da dove è completamente escluso l’essere umano, presente solo, ma non esclusivamente, come spettatore. L’uomo che esternalizza (produce forme come le ali della farfalla, come la natura), l’uomo che produce arte e risoggettivizza il mondo reificato, si fa – come uno sciamano – mediatore,
intercessore tra i diversi mondi, operando in maniera da rimaterializzare i rapporti. Questo sarebbe, dall’interpretazione libidica del colore di Jean-François Lyotard (il Lyotard precedente l' “immateriale” tecnologico) al recupero del tempo e dell’interiorità nella pittura di Isabelle Graw, un modo per reincarnare il mondo.

L’arte quindi come la magia, l’artista come mago, non fanno altro che accedere al Mana, un fluido speciale immanente agli oggetti e alle sostanze nelle popolazioni melanesiane studiate da Lévi-Strauss, operando uno spostamento, inventando una nuova topologia (anche questo concetto è legato alle popolazioni antiche, al sacro e alle vicende dello spazio). Quindi l’arte opera attraverso questa dislocazione, spostando l’abituale, il comune e il convenzionale in un nuovo territorio, creando un nuovo spazio dove
l’energia del fluido, una nuova significazione, operi secondo una semiologia inaspettata quanto profonda e radicata nella natura e nel mondo, creando appunto un senso, arrivando al Mana.