Esserci senza i ghiacci. La filosofia e lo scioglimento dei ghiacciai
Marco Papetti

19.11.2022

Filosofia tra i ghiacci. Viaggio nella fine di un mondo (Meltemi, Milano 2021) di Matteo Oreggioni, filosofo e operatore del Servizio Glaciologico Lombardo, si struttura attorno ad un incontro – quello tra la filosofia e i ghiacciai – che a prima vista può apparire curioso, ma che ridesta, in realtà, una domanda antica: quella che verte sul rapporto tra il pensiero, la vita e le cose, e sul posto del pensiero e della vita tra le cose.

La questione da cui il libro prende le mosse è la fine del mondo delle nevi ‘perenni’, che il riscaldamento globale sta condannando alla scomparsa per scioglimento e la cui importanza per l’ecosistema è manifestata, in negativo, dalle conseguenze della sua fine, da tempo riscontrabili nelle nostre Alpi: alterazione della biodiversità, scongelamento del permafrost montano e instabilità delle masse rocciose, modificazione dei regimi fluviali (p. 35). I dati riportati da Oreggioni impressionano. Da quando ha avuto inizio l’era dei combustibili fossili, più del 50 % dei ghiacci alpini è andato perso, e le previsioni più fosche ne predicono la scomparsa dell’80 % entro la fine del secolo (p. 36). Significativo è anche il dato sulle Alpi Centrali italiane: tutti i suoi ghiacciai si collocano già al di sotto dell’ELA, la linea di persistenza delle nevi, il che significa che nelle attuali condizioni climatiche non troverebbero più le condizioni per formarsi, sono «qualcosa che c’è pur non potendo esserci» (p. 38), un «fantasma materico» (p. 150).

Lo scopo di Oreggioni non è però solo quello di documentare gli effetti della crisi climatica attraverso il ghiacciaio che ne è, come lui scrive, il «termometro» (p. 33), ma anche di meditare sul senso della possibile estinzione di questo ente: cosa ci dice, si chiede in sostanza l’autore, del nostro essere nel mondo la possibilità di questa fine e il fatto che ci coinvolga così direttamente? E come deve ristrutturarsi il pensiero, per affrontare le implicazioni di tutto ciò?

A questi interrogativi Oreggioni risponde riprendendo l’idea, ampiamente diffusa anche nel sentire comune, secondo cui il riscaldamento globale sarebbe l’esito necessario dell’«invasività cancerogena» (p. 82) della specie umana, la quale, dopo aver per secoli sfidato la natura, ne avrebbe avuto finalmente la meglio, vincendo però in questo modo anche se stessa (Ibid.). In quest’ottica, la crisi del clima non sarebbe altro che il nostro ‘suicidio di specie’, e una filosofia che non volesse chiudere gli occhi rispetto al reale dovrebbe ridefinirsi come pensiero di questa nostra fine. Nelle pagine conclusive del libro, Oreggioni indica la forma di questa nuova (e ultima) filosofia in un «esistenzialismo crepuscolare» (p. 175), il cui atteggiamento di fronte alla catastrofe climatica sarebbe l’«amor fati» (p. 184), l’accettazione della crisi ambientale come destino, in una condizione che ci accomunerebbe a Sisifo – o meglio, a «Sisifo climatico» (p. 175).

Il problema di questa lettura – si potrebbe dire riprendendo l’immagine mitologica utilizzata dall’autore – è che Sisifo non è in fondo altro che il rovescio e la nemesi di Prometeo, l’eroe dell’ideologia di dominio occidentale alla quale tanto si imputa dell’attuale situazione. L’uno titanico nello sforzo di assoggettare l’esistente, l’altro nel sopportare il supplizio a cui la sua azione lo ha condotto, entrambi sono figure dell’antropocentrismo dell’Occidente, che ha pensato l’uomo come unica agency in grado di intervenire su una natura inerte. Emblemi, dunque, non di tutta l’umanità, ma di una parte di essa e, soprattutto, di un suo particolare modello produttivo, quello capitalistico, del quale nel testo di Oreggioni manca qualsiasi tipo di critica. Inoltre, questa interpretazione, vedendo nel disastro ambientale l’esito necessario dell’evoluzione dell’Homo sapiens, si risolve in un fatalismo che, oltre a comportare una rassegnazione esistenziale che non lascia spazio a prospettive di cambiamento, non esplicita adeguatamente quel che davvero la crisi ambientale porta alla luce: non il nostro destino di distruttori della natura, ma il legame di dipendenza che intratteniamo con la Terra e con l’insieme, soverchiante, delle sue forze.

È per non essersi accorto di questo che Oreggioni riduce la nostra relazione col Pianeta ad una sorta di esilio dominato dal senso di estraneità e dall’ossessione di ricevere o di dare la morte, che definisce «l’unico dono che abbiamo ricevuto con la vita» (p. 55). Quel che gli sfugge è come assieme ad un destino di finitezza ci sia stata data anche una peculiare connessione con le cose e con il mondo, un’estrema «vicinanza», come la chiama Timothy Morton (Iperoggetti, Nero, Roma 2018, p. 43), che non è negata, ma semmai confermata da eventi come la crisi ambientale che rivelano l’eccedenza della natura su di noi. Sarebbe dunque meglio vedere nel riscaldamento globale e nelle sue conseguenze non la prova finale del «divorzio tra la nostra specie e la vita» (M. Oreggioni, cit., p. 94), ma al contrario la conferma del legame della vita, umana e animale, con ciò che la perpetua e la sostiene (come la Terra e la biosfera) e che, come il ghiacciaio, può tanto stravolgerne l’ambiente quanto intesserlo «di una trama significativa» (p. 149).

Quest’idea – che dalla crisi ambientale emerga la profondità del nostro legame con il non-umano – non è tuttavia estranea al lavoro di Oreggioni. La sua ricchezza, anzi, consiste proprio nel contenere sottotraccia, assieme alla tesi principale, anche la propria antitesi, ovvero l’idea che rispetto al disastro ecologico in atto il pensiero debba impegnarsi non come ‘esistenzialismo crepuscolare’, ma come filosofia del nostro stare tra le cose e del nostro appartenere alla Terra. Questa concezione la si può rintracciare, in Oreggioni, nelle pagine in cui parla dello scioglimento del ghiacciaio come di un «evento» (p. 40) il cui potere sarebbe quella di «rendere visibile l’invisibile» (p. 154): con questa espressione, dai toni merleaupontyani, l’autore vuole riferirsi proprio al fatto che la fine del ghiacciaio, la cui spettacolare perdita di volume è in un certo senso la manifestazione plastica stessa del riscaldamento globale, è in grado di mostrare quell’inserimento della nostra vita in una relazione complessa di forze non-umane di cui normalmente ignoriamo non solo l’esistenza, ma anche il valore ontologico. Cogliendo il punto, ma sbagliandosi nell’interpretarlo in continuità con la tesi dell’umanità-killer, l’autore deduce da ciò la necessità di convertire la filosofia in quella che lui definisce «kryosophia», una «filosofia tra i ghiacci» (p. 146) che abbia per tema la relazione di «coesistenza tra l’umano e il non umano» (p. 144) e, più precisamente, tra noi in quanto viventi e ciò che forma il nostro ecumene.

Se pertanto siamo con le cose in una tale prossimità, è a partire da questo fatto che dobbiamo ristrutturarci. In alternativa all’immagine del supplizio di Sisifo e alla riscoperta dell’amor fati nietzschiano, Oreggioni indica il modello di questa rivoluzione di pensiero e di vita nell’alpinismo, che, secondo la definizione di René Daumal da Il Monte Analogo, può essere «l’arte di percorrere le montagne affrontando i massimi pericoli con la massima prudenza» (p. 180) solo in quanto è, appunto, arte, ossia pratica che si modella sulla natura delle cose, e non separa mai la frequentazione degli ambienti dalla loro conoscenza e dalla conoscenza di ciò che noi siamo e di ciò che possiamo in essi. Con questo, è accantonato il sogno del dominio integrale della natura, mentre siamo ricondotti a un piano in cui l’antica domanda sul nostro collocarci nel mondo si scopre vicina all’indagine concreta dell’«animale che avanza in ascolto dello spazio circostante» (p. 184) per rilevare nel suo ambiente se stesso e le proprie possibilità. Esprimere e rinnovare questa domanda è uno dei compiti che i ghiacciai, scomparendo, assegnano alla filosofia.