Ecologia e cambiamento
Marco Papetti

22.01.2022

Nella raccolta Il tramonto della politica. Considerazioni sul futuro del mondo (Rizzoli, Milano 2017) Emanuele Severino sostiene a più riprese la tesi secondo cui il destino della filosofia che incarna l’essenza del nostro tempo è quello di portare a compimento il dominio tecnico-scientifico del mondo, rivelando alla tecnica – definita «progetto che ha lo scopo di aumentare senza limiti la capacità umana di realizzare scopi» (Ivi, p. 104) – l’assenza di quei limiti (etici, politici, religiosi) al rispetto dei quali la tradizione occidentale da sempre la richiama, impedendole di esprimere appieno la sua potenzialità.

Questa filosofia è il «sottosuolo» (Ivi, p. 93) filosofico dell’epoca attuale, che conduce alle estreme conseguenze la fede nel divenire inaugurata dai Greci e divenuta la cifra della modernità occidentale. Se la tecnica si ponesse in ascolto di questa voce, che le annuncia la morte di ogni valore assoluto e di Dio, avrebbe trovato quel fondamento concettuale che, scrive Severino, ancora le manca, e potrebbe realizzare senza più ostacoli quel «dispiegamento infinito della forma massima della potenza» (Ivi, p. 54) che è il suo scopo ultimo.

Anche senza condividere i presupposti della filosofia di Severino, ci si può servire di questa posizione per definire meglio i tratti di un paradigma filosofico che cerchi di rispondere alla crisi ecologica odierna. Se è evidente che il trionfo della volontà di potenza causato dall’incontro tra la filosofia-sottosuolo del nostro tempo e la tecnica non può in alcun modo portare a una relazione ecologica tra la produttività umana e il mondo, è però necessario chiarire quale sia precisamente il discrimine tra la situazione immaginata da Severino e una razionalità ecologica, benché possa apparire scontato.

Vi è un punto, infatti, che la filosofia che libererebbe la tecnica dagli ultimi lacci della tradizione e quella che invece cerca di offrire una base filosofica per l’ecologia condividono: l’affermazione dell’inerenza terrestre dell’uomo, che dall’una è intesa come signoria dell’uomo sul mondo in cui può dispiegarsi senza limiti l’attività della tecnica, dall’altra come il vincolo, corporeo, che radica ogni vivente nella natura. Cos’è che allora propriamente distingue queste due concezioni filosofiche, facendo sì che comportino esiti opposti?

È il nesso, che una razionalità ecologica non può non teorizzare, tra l’inerenza e il limite, al contrario dello scenario preconizzato da Severino, in cui la presa d’atto della ‘solitudine’ terrestre dell’uomo dà il via libera all’abbattimento degli ultimi baluardi che la tradizione aveva eretto sul cammino della tecnica.

Una razionalità dell’inerenza, nonostante il materialismo implicito in essa, non si confonde con la filosofia della volontà di potenza; anzi, proprio tale materialismo è ciò che in essa sostanzia il legame tra inerenza e limite: quest’ultimo non è un valore moralistico, ma quel confine oltre il quale la natura, in cui il vivente è immerso con il corpo, da suolo della vita diviene alterità, mostra un aspetto che, come scrive Merleau-Ponty, esce dal «quadro del mondo» (M. Merleau-Ponty, Linguaggio, storia, natura. Corsi al Collège de France 1952-1961, trad. it. di M. Carbone, Bompiani, Milano 1995, p. 109) dell’umano.

Il limite, inteso a partire dall’inerenza materiale, è ciò che rivela all’uomo abituato a concepirsi come un «essere tecnico» (E. Severino, cit., p. 227) che anche la tecnica, e la produttività tecno-capitalistica oggi dominante, si esercitano a partire da un fondamento materiale che non può essere oltrepassato, pena la messa a repentaglio delle condizioni stesse della vita.

Una razionalità ecologica potrebbe riconoscersi in un’epigrafica poesia di Giorgio Caproni, in cui la condizione umana è circoscritta a un’insuperabile appartenenza terrestre: «Ho provato anch’io./È stata tutta una guerra/d’unghie. Ma ora so. Nessuno/potrà mai perforare/il muro della terra» (G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2016, p. 343).

Affermare l’inerenza alla natura dell’uomo non esaurisce certo il problema di un fondazione filosofica dell’ecologia, ma è lo sfondo imprescindibile a partire dal quale pensare a una via d’uscita dall’attuale crisi ambientale.

Da questo sfondo emergono svariate questioni ancora aperte, tra le quali, in particolare, è centrale quella di un’adeguata definizione del concetto di cambiamento. Se il modello di riferimento tradizionale della produttività occidentale è fondato su quella che Severino definisce «fede nel diventare altro e nel credersi capace», da parte della tecnica, «di produrre tale divenire» (Ivi, pp. 207-8) – ossia su una pratica trasformativa che opera per analogia con una concezione del tempo come incessante divenire-altro delle cose –, quale idea di cambiamento si adatta a una visione filosofica che pone invece al centro un’alterità – quella della natura – che non si presta a una manipolazione indefinita?

Se il fare della coscienza che è puro pensiero è un fare che si esercita su un mondo concepito come disponibile alla sua trasformazione «en fonction d’une fin, i. e. d’un résultat représenté» (M. Merleau-Ponty, L’institution, la passivité. Notes de cours au Collège de France 1954-55, Belin, Paris 2015), quale tipo di attività può essere propria di una coscienza che si pensi come incarnata, inerente, e che voglia modificare il rapporto tra se stessa e il mondo, ma senza piegare quest’ultimo ai propri interessi e fini?

Senza una riflessione accurata sul concetto di cambiamento, che coinvolga anche la nozione di immaginazione, rischia di rimanere intatta un’idea tradizionale della progettualità umana, che cerca di generare un mutamento ecologico senza essersi confrontata adeguatamente con i concetti del limite e dell’alterità.

Un’eventualità, questa, in cui la relazione che si vorrebbe ecologica tra l’uomo e l’ambiente sarebbe concepita e troverebbe realizzazione concreta nuovamente a partire dai progetti del soggetto, il quale, vistosi in pericolo, dirigerebbe la sua consueta vocazione alla trasformazione del mondo su una realtà immaginata, stavolta, senza se stesso al centro.

Così, però, verrebbe vanificato qualsiasi tentativo di vera transizione a un modello ecologico, come appare evidente nel caso delle energie rinnovabili, che, non essendo in fondo che un affinamento ‘ecologico’ della tecnica, possono anch’esse, in mancanza di una riflessione sul senso e le modalità del cambiamento a cui danno vita, divenire anch’esse, mutatis mutandis, espressione del prometeismo umano.

Un esempio, tra i tanti, di quanto detto riguarda una fonte di energia rinnovabile ‘ingombrante’ come le pale eoliche: come ricordato da diversi studi, senza un’accurata valutazione del loro impatto sull’ecosistema del territorio in cui vengono collocate, potrebbero danneggiarne l’equilibrio; per scongiurare quest’eventualità, occorrerebbe dunque conoscere, per tutelarli, i molteplici fattori che compongono un dato ambiente, come le esigenze della vita animale e le caratteristiche del paesaggio e degli habitat – in breve, occorrerebbe confrontarsi con l’alterità che tutti questi fattori costituiscono rispetto all’orizzonte umano.

Su quest’ultima nozione, e su quella di limite, è necessario lavorare, dunque, per dare voce e forma filosofica opportuna a quell’urgenza di cambiamento che è, probabilmente, il vero ‘sottosuolo’ della nostra epoca.