15.02.2021


3. E se la verità della storia fosse il teatro?
Immanuel Kant e la grande Rivoluzione come archetipo di un progresso possibile
Manlio Iofrida


Sulla storia, come anche su liberalismo e democrazia Immanuel Kant ha preso di volta in volta posizioni differenti, che ce lo fanno apparire più pessimista o più ottimista, come un tipico rappresentante di un pensiero grettamente borghese o come il capostipite di forme di pensiero socialista; del resto, fra la sua prima Critica e la Terza corre une differenza abissale, qual è quella fra una soggettivizzazione completa del mondo e della sua riduzione prometeica ad essa e un’apertura all’alterità e (come avrebbe poi detto Adorno) al non identico. Anche sulla Rivoluzione francese, a cui ha prestato molta attenzione, la posizione di Kant non è stata univoca, ma a me interessa qui ricordare, più che i suoi giudizi, uno dei suoi atteggiamenti, poiché esso collega il problema della storia a quello del teatro.

Siamo nel 1798 e la parabola della Rivoluzione sta volgendo al termine, avviandosi verso quel 18 brumaio che l’anno dopo ne avrebbe segnato la conclusione con l’avvento di Napoleone. Kant, ne Il conflitto delle Facoltà (tr. it. Morcelliana, Brescia, 1994), affronta ancora una volta la questione della filosofia della storia e si domanda se essa sia veramente indirizzata verso il meglio e, per rispondere, manco a dirlo, si rivolge proprio alla Rivoluzione francese. Come è noto, i Tedeschi in generale ebbero un rapporto complesso con la quest’ultima : innanzitutto, come ebbe a lamentare, fra gli altri, anche Marx, perché non la fecero, e in parte anche perché la subirono come invasione napoleonica ; eppure, nel loro essere più spettatori che attori, non dettero al formarsi della coscienza della modernità un contributo non meno importante dei loro rissosi vicini di Oltre Reno? Il saggio di Kant sembra voler dare uno statuto esemplare alla figura dello spettatore: sembra conferire al guardare e all’essere guardati - allo spettacolo e alla teatralità - un ruolo essenziale nella questione dello statuto della storia.

Kant inizia parlando di “un avvenimento del nostro tempo che manifesta la tendenza morale del genere umano” e considerando che “quest'avvenimento non consiste in importanti fatti o misfatti compiuti dagli uomini”, cioè in tutto quello che è realmente avvenuto; quello che conta nella grande Rivoluzione sono il modo di pensare di coloro che ne erano spettatori, la simpatia disinteressata di fronte al grande gioco che loro si dispiegava davanti e il parteggiare per gli uni o per gli altri giocatori: ma diamo la parola a Kant stesso:

"Si tratta solo del modo di pensare degli spettatori, che in questo gioco di grandiose trasformazioni si palesa pubblicamente e manifesta a gran voce una generale e tuttavia disinteressata simpatia per i giocatori d'una parte contro quelli dell'altra, nonostante il rischio che lo spirito di parte possa risolversi in un non piccolo danno" (ivi, Parte II, par. 6).

Questa introduzione della categoria del gioco per interpretare l’evento fondativo della storia moderna ci dice che il Kant che qui parla è proprio quello della Terza Critica, quello del gioco delle Facoltà e del giudizio riflettente, che avrebbe aperto la strada, nel Novecento, al grande libro di Huizinga sul gioco e a quello della Arendt sul giudizio politico. La Rivoluzione è una grande rappresentazione teatrale o anche una grande gara e tutti gli uomini vi assistono con simpatia, si identificano con l’uno o l’altro attore, con l’una o l’altra squadra, in un gioco la cui posta sono i valori per cui val la pena vivere, è la scelta della civiltà che si vuole costruire. La storia è essenzialmente anche teatro, non nel senso banalmente postmoderno secondo cui è una mera finzione nichilista, ma in quello profondo per cui nel rapporto intersoggettivo e anche in quello con la natura siamo inevitabilmente coinvolti in un gioco di alterità in cui il momento della rappresentazione, del mostrarci all’altro e dell’essere per lui non può mai coincidere con quello del nostro essere per noi - la recita è il modo con cui ci rapportiamo nella verità agli altri, a cui non abbiamo accesso diretto.

È in queste pagine sul nostro esser attori in quanto spettatori e spettatori in quanto attori che un Kant che altre volte è stato assai pessimista si lascia andare al pronostico secondo cui “questo atteggiamento mostra (per via della sua generale diffusione) un carattere dell'umanità nel complesso, e ad un tempo prospetta (per il suo disinteresse) un carattere morale del genere umano, almeno nella disposizione di base, che [...] fa sperare il progresso verso il meglio” e conclude:

"La rivoluzione di un popolo ricco di spirito, rivoluzione che abbiamo visto accadere ai nostri giorni, può riuscire o fallire; può essere a tal punto colma di miserie e atrocità che un uomo di retto pensiero, se potesse sperare di condurla felicemente a termine intraprendendola per la seconda volta, mai deciderebbe di tentare l'esperimento a tal prezzo - questa rivoluzione, dico, trova però nell'animo di tutti gli spettatori (che non siano direttamente coinvolti nel gioco) una partecipazione, sul piano del desiderio, prossima all'entusiasmo e la cui stessa manifestazione comportava dei rischi: una partecipazione che può essere causata solo da una disposizione morale intrinseca al genere umano" (ibidem).

Infatti i francesi si sono battuti sia per poter decidere liberamente del loro destino (costituzione repubblicana) sia per bandire dal consorzio umano la guerra; e in questo hanno dimostrato disinteresse, distacco dall’interesse grettamente individualistico:

"Non esistevano ricompense in denaro che potessero portare i controrivoluzionari a quello zelo e grandezza d'animo che la sola idea del diritto suscitava nei rivoluzionari, e anche il concetto dell'onore dell'antica nobiltà guerriera (qualcosa d'analogo all'entusiasmo) svaniva dinanzi alle armi di coloro che avevano per fine il diritto del popolo cui appartenevano, diritto del quale si reputavano i difensori. Con tale esaltazione simpatizzava il pubblico, che guardava dal di fuori, senza la minima intenzione di cooperare" (ibidem).

Sono pagine in cui capiamo quanto il tardo Michel Foucault, con la sua ammirazione per i rivoltosi iraniani, capaci di mettere a repentaglio la loro esistenza pur di detronizzare lo Scià, seguisse ancora le peste di questo Kant. Ma, al di là di questo, e della rigida contrapposizione di utile e morale, tipica del dualismo e del moralismo pietista del filosofo tedesco, aver posto al centro della questione della storia e della rivoluzione i concetti di gioco, teatro, spettatorialità, partecipazione, entusiasmo e simpatia è un gesto di grande portata: la storia e la rivoluzione sono valorizzate non per il loro corso, per la successione lineare e temporale, né per la loro semplice empiricità, ma per la loro esemplarità : la rivoluzione è una rappresentazione che invita alla ripetizione e al ricorso, alla ripresa; una volta avvenuta, essa non apre a nessun progresso necessario, ma niente potrà fare che essa non sia avvenuta: dopo di essa, la sua ripresa e il suo sviluppo sarà sempre possibile.

In questo senso, la rivoluzione permette di fare “un'osservazione importante per l'antropologia”, ci dice cioè qualcosa sulla costituzione dell’uomo e della società, e dunque anche sulla storia, che ne è l’espressione. Di nuovo, non parliamo di un’essenza che si manifesta con necessità, ma solo di una possibilità che si attua nella e attraverso la contingenza: ma tale possibilità ormai è apparsa ed essa potrà fungere da matrice per la storia futura.

È per questo che, senza profetismo, Kant può scrivere un paragrafo successivo intitolandolo “Storia pronosticante dell'umanità”, in cui non enuncia alcun vaticinio, ma solo alcune possibilità necessarie, alcuni trascendentali storici che la Rivoluzione francese ha, per così dire, presentato empiricamente: dopo aver di nuovo affermato che la rivoluzione rende chiaro il legame fra la costituzione dell’ uomo, il regime repubblicano e la messa al bando della guerra, egli afferma, “anche senza il dono dello spirito profetico, ma in base a semplici indizi e ai segni premonitori dei giorni nostri”, che il progresso umano sarà non necessario, ma “non [...] più del tutto impedito”, perché “l’apparire di qualcosa del genere nella storia umana non si dimentica più, perché ha svelato una capacità e una disposizione della natura umana al meglio quali nessun uomo politico, anche arrovellandosi, avrebbe desunto dal corso della storia passata”; questo è stato un “avvenimento fortuito e indeterminato quanto al suo verificarsi nel tempo”, ma, anche se fallisse e

tutto fosse di nuovo ricondotto sui binari precedenti” [...] quella predizione filosofica non perderebbe nulla della sua forza.- Quell'avvenimento è infatti troppo grande, troppo intrecciato all'interesse dell'umanità e, per la sua influenza, troppo esteso a ogni parte del mondo per non tornare, in un qualsiasi ricorrere di circostanze favorevoli, alla memoria dei popoli e per non essere evocato allo scopo di ripetere tentativi del genere”.(ivi, Parte II, par. 7, corsivo mio).

Anche se subito dopo Kant parla di “progresso” aperto su una “prospettiva di tempo incalcolabile”, quel che conta è che questa concezione del progresso è incardinata su un’idea di ripetizione e di ripresa del grande avvenimento quando le contingenze lo permetteranno: ritroviamo dunque la centralità del tema del ricorso e il suo legame essenziale col tema del progresso; ritroviamo l’idea che la storia non è accumulo casuale di eventi, ma allaccio di ordine e caso, creazione di ordini fragili, non necessari, ma possibili, istituzione di grumi o semi di senso che possono essere effimeri e sono comunque destinati a perire, ma che, come archetipi o schemi morfologici, hanno una prospettiva infinita, possono essere ripresi, sviluppati, ripetuti - una visione in cui progresso e regresso, vita e morte non sono delle alternative, ma le due facce di un’unica realtà. (continua)