22.02.2021

Dopo la pandemia un nuovo impegno per gli intellettuali

Vittorio Boarini

Non è pensabile una rinascita dopo la pandemia senza l’apporto di un pensiero critico capace di immaginare un nuovo modello di sviluppo, un modello atto a superare non solo il neoliberismo, l’ideologia responsabile della disastrosa situazione presente, ma i fondamentali del capitalismo stesso, in primo luogo il postulato che pone il profitto come motore del progresso sociale.

Se si ritiene che il moderno, nella sua ultima figura, per dirla con Hegel, opportunamente chiamato in causa da Manlio Iofrida nel primo numero di questa rivista, sia il modo di produzione capitalistico, la prima radicale critica del moderno è l’analisi di Marx del processo produttivo con tutte le conseguenze che da tale analisi derivano. Mi limito a mettere in evidenza, sarà chiaro perché più avanti, che Marx parte da una disciplina specifica, l’economia classica, e la spinge fuori da se stessa fino a farne una teoria generale di interpretazione del mondo. Anche Weber, sia pure in forma meno radicale, adotta un procedimento analogo per quanto riguarda la sociologia, anche lui utilizzando categorie hegeliane fa di una disciplina specifica, consolidata in quanto tale, una teoria generale della società.

Se poi intendiamo il pensiero critico come negazione dialettica di tutta la storia precedente, abbiamo certamente in Nietzsche un protagonista eccezionale: la interpretazione della civiltà giudaico-cristiana come “duemila anni di menzogne” è il presupposto da cui partiranno tutte le avanguardie del Novecento.

E’ interessante sottolineare che anche alle scienze nomotetiche, in particolare alla fisica teorica, succede qualcosa di simile, a cavallo fra Ottocento e Novecento, con la crisi dei fondamenti. La fisica, recuperando la filosofia presocratica, diviene una teoria dell’universo che soppianta quella di Newton e muta radicalmente, soprattutto attraverso le elaborazioni di Einstein, Planck e Heisenberg, la nostra concezione del mondo.

Non può mancare un riferimento a Freud che, partendo dalla psichiatria positivista e dalla psicologia, arriva a formulare una critica del moderno analoga per forza dirompente a quella di Marx e di Nietzsche.

Per completare il quadro nel quale nasce e si consolida il pensiero critico dobbiamo richiamare le avanguardie storiche, coeve alla crisi dei fondamenti e alla pubblicazione di alcuni testi fondamentali di Freud, che rifiutano la consolidata nei secoli separatezza dell’arte e, denunciando l’equivalenza di museo e mercato, ripropongono il tema hegeliano della sua morte. Gli avanguardisti si propongono anche una conseguente azione pratica, staccare l’arte dall’universo separato in cui è stata rinchiusa, dando vita ad un’inedita unità fra essa e la vita.

Infine, ma decisivo, l’affacciarsi in quegli stessi anni del proletariato quale protagonista della storia, un protagonista che seguendo la lezione di Marx ha lasciato le armi della critica per esercitare la critica delle armi. Questa vicenda, culminata con la rivoluzione d’Ottobre, un evento che ha segnato un discrimine storico, costituisce un elemento chiave del Novecento e, io credo che, non casualmente i curatori del milanese museo del Novecento abbiano aperto il percorso delle opere con Il quarto stato di Pellizza Da Volpedo.

La mancata propagazione della rivoluzione in Europa, auspicata dai Bolscevichi, ne arresta la spinta propulsiva e dà luogo all’inizio della sua involuzione nella stessa URSS. Le avanguardie artistico-letterarie si estenuano, nonostante il Surrealismo tenti strenuamente di resistere, e vengono sottomesse dal ritorno all’ordine che caratterizza la generale restaurazione la quale, come sappiamo, non è il ritorno allo status quo ante. L’arte della restaurazione infatti raggiunge livelli molto alti essendosi arricchita di tutte le sue determinazioni. In altri termini, le polemiche negazioni di tutta l’arte del passato si sono rovesciate in nuovi affascinanti linguaggi dando luogo alla tradizione del nuovo. L’arte però, ecco un vero e proprio ritorno allo status quo, resta chiusa nella sua separatezza.

Il pensiero critico squarcia la coltre restaurativa e, sulla scorta dei grandi ai quali abbiamo accennato, si arricchisce ulteriormente con gli apporti fondamentali di Walter Benjamin e dei francofortesi, in particolare Adorno e Horkheimer e, azzardo anche, Marcuse. Aggiungo Heidegger, che con l’Età della tecnica e Il pensiero della fine ha arricchito sostanzialmente la critica allo stato di cose esistente. Ovviamente, molti altri andrebbero citati, ma qui mi limito ai fondamentali.

Nel periodo fra le due guerre si afferma come gruppo sociale rilevante quello, inedito, degli intellettuali impegnati, destinato a restare di grande attualità anche nel secondo dopoguerra, raccolti nella trincea dell’antifascismo. Vi erano stati dei precedenti, basti pensare a Zola e al suo “J’accuse”, ma è soprattutto negli anni trenta che appare dispiegato il ruolo di questo gruppo, il quale avrà la sua prova del fuoco con la guerra civile spagnola.

Nel secondo dopoguerra gli intellettuali si schiereranno contro la guerra fredda, si pensi a Sartre e al suo “Nous ne partirons pas pour la cruisade”, e contro la tendenza restaurativa, mascherata da lotta al comunismo, che spingeva per un ritorno all’ordine, dopo che la Resistenza aveva fatto emergere con forza i valori della pace, della libertà e della giustizia sociale. Anche la libertà dei popoli coloniali era all’ordine del giorno e, a questo proposito, vanno ancora ricordati Sartre e gli intellettuali francesi, che si batterono per la fine della guerra in Indocina e poi per la indipendenza dell’Algeria.

Come gruppo socialmente individuato, sia pure diversificato al proprio interno, soprattutto nel giudizio sull’Unione sovietica ma non solo, continua ad esercitare validamente la propria funzione fino alla fine degli anni settanta quando, a seguito della restaurazione succeduta all’esplosione eversiva del sessantotto, si instaura l’egemonia neoliberista tuttora in corso. Dobbiamo segnalare fra gli intellettuali italiani del dopoguerra la figura esemplare di P.P. Pasolini, misteriosamente assassinato nel 1975.

A partire dagli anni ottanta gli intellettuali, cioè, voglio ribadirlo, coloro che hanno una visione critica della totalità e sanno riportare ad essa ogni problema particolare, vengono gradualmente assorbiti nel richiamo all’ordine. Quelli che non si sono arruolati fra i consiglieri del principe si sono dispersi nella spettacolarizzazione diffusa, che riguarda anche la politica se non la vita stessa. Sono diventati “intellettuali quotidiani”, impegnati ad emettere sentenze sui giornali e nelle televisioni, a partecipare a dibattiti e tavole rotonde, a presentare libri e mostre; sono insomma i protagonisti della chiacchiera universale nobilitata da nomi famosi e dall’auto-attestazione di democraticità contro il falso nemico della cultura aristocratica. Che certamente esiste, ma che, a sua volta, è diventata cultura dello specialismo, delle singole discipline chiuse nella loro separatezza, dalla quale emergono quando le circostanze portano sotto i riflettori un sapere specifico i cui cultori vengono chiamati a disquisire anche sulle questioni più disparate, come attualmente succede clamorosamente ai virologi.

Credo si possa affermare che in questo periodo il gruppo sociale degli intellettuali esaurisce la sua funzione ed assistiamo a un paradossale ritorno al passato in tono minore. Al posto dell’intellettuale consegnatoci dalla tradizione ora abbiamo lo specialista che tende ad uscire dalla separatezza forzando la sua disciplina ad interpretare la realtà, a leggere la totalità sulla base delle categorie disciplinari che gli sono consuete. L’intellettuale sfugge così alla tentazione, sempre in agguato, di divenire un “tuttologo” per allargare la propria specializzazione, per spingerla fuori di sé fino a comprendere non le altre discipline con un criterio analogo alla classica metodologia interdisciplinare, ma il mondo in quanto tale. Fra le tante discipline interessate a questo processo trovo particolarmente interessante l’architettura e in ispecie l’urbanistica che tenta un’interpretazione generale del presente con le teorie del territorio, la storia delle città, le tesi sull’urbanizzazione. Il percorso però è molto più esteso e coinvolge anche gli ambiti rigorosamente disciplinari come quelli classici, patrimonio da sempre degli antichisti. Oggi i poemi omerici e la mitologia greca sono il contesto di nuove interpretazioni del mondo fondate sull’eroismo di Achille e sulle avventure di Odisseo.

Si potrebbe continuare questo excursus analitico, ma ritengo sia il momento di ritornare alle avanguardie artistico-letterarie poiché la galassia arte, come già accennato su queste pagine da Carmen Lorenzetti, è forse l’elemento più significativo per quanto riguarda una possibile definizione degli odierni intellettuali, sempre intesi come gruppo socialmente rilevante.

A partire dagli anni quaranta iniziano a germogliare nuove avanguardie in Europa e negli Stati Uniti, qui anche grazie all’emigrazione delle avanguardie storiche in fuga dai fascismi e dalla guerra. Possiamo anche azzardare un

esempio riguardante le arti figurative, l’Informale in Europa e l’Action painting negli Usa, dalla quale nascerà il New Dada e poi la Pop Art. Questa successione americana è particolarmente rivelatrice del reale significato assunto dalla lotta avanguardistica contro la realizzazione eteronima dell’arte (la sua morte diciamo noi, mentre per Hegel è il momento in cui l’arte conosce tutta la sua storia), cioè la riduzione dell’arte a valore di scambio.

Con il disvelamento del mondo come immenso arsenale di merci, grazie alla Pop Newyorkese, anche la nuova avanguardia finisce, questa volta assorbita e svuotata da un altro evento polemico globale, l’eversione del sessantotto. La nuova restaurazione presenta un fenomeno inedito legato al fatto che le nuove avanguardie, a differenza di quelle storiche, sono di massa (si confrontino al proposito gli scritti di Maurizio Calvesi). Questa volta la dissoluzione dell’arte romantica, sempre per dirla con Hegel, è un ritorno del classico nella forma del Kitsch, l’identificazione dell’arte non con la vita ma con la realtà, tutta la realtà. Infatti non è solo l’arte che si realizza come merce, ma tutte le merci che si realizzano in forma estetica per corrispondere ai bisogni di consumatori formati dall’estetismo di massa che domina l’intera società. Ai sarti divenuti stilisti, per fare un esempio, corrispondono consumatori che esigono capi firmati.

Di fronte a questa realtà vediamo come reagiscono gli artisti: dopo aver tentato invano come già i surrealisti, di resistere alla restaurazione, rifiutando l’oggettivazione (Concettualismo e Grammatiche del corpo) oppure producendo oggetti impraticabili per il mercato (Arte povera e Land Art), gli artisti più avvertiti sono ora impegnati a praticare un recupero dell’arte staccandola dal kitsch attraverso un nuovo sperimentalismo che postula anche una riflessione sull’arte e il suo destino profonda come quella avvenuta fra le due guerre. A questo punto, mentre continua implacabile il ritorno all’ordine succeduto all’esplosione eversiva, i nuovi sperimentatori possono felicemente aggiungersi ai nuovi intellettuali e dare un contributo decisivo alla progettazione del futuro. Gli artisti, infatti, che per antonomasia sono i visionari creatori di inesplorati mondi a venire, potrebbero essere il ferro di lancia del gruppo che ho cercato di individuare come possibile suggeritore di un inedito modello di sviluppo.