Documenta 15: un nuovo paradigma
Carmen Lorenzetti

05.11.2022

Documenta 15 è stata curata dal gruppo indonesiano, fondato a Jakarta nel 2000, ruangrupa: un collettivo di artisti che lavora sul territorio in stretto contatto con le comunità locali e altri collettivi, producendo mostre, incontri, dibattiti, libri, riviste e pedagogia alternativa, insomma utilizzando la metodologia dell’”artivismo”, pratiche che uniscono le estetiche all’etica e all’impegno sociale. Dal 2002 sono stati invitati a varie mostre internazionali tra cui la Biennale di Gwangju, di Istanbul, di San Paolo, di Sharjah. Dal 2018 hanno costituito il Gudskul (la cui traduzione sarebbe “buona scuola”) con i due collettivi indonesiani Serrum e Grafis Uru Hara, che “promuove l’importanza del dialogo critico e sperimentale attraverso un processo di studio condiviso e basato sull’esperienza”. Ed è questa esperienza che il collettivo ha voluto trasportare (loro usano il termine “translate”) a Kassel, impiantando nella città teutonica il loro habitat. Il concetto chiave, che da il titolo a questa edizione, è quello di lumbung, che significa il magazzino dove viene immagazzinato il riso e poi redistribuito in modo collettivo. Così ruangrupa ha invitato cinque personalità da varie parti del mondo come primo nucleo del lumbung, poi quattrodici collettivi, che a loro volta hanno invitato altri collettivi e artisti, arrivando a più di sessanta collettivi e a più di millecinquecento artisti: si è così venuto a creare il lumbung-interlocal, che radicandosi nel territorio tedesco è diventato anche lumbung-Kassel.

In questo modo non c’è stato un unico processo di selezione dall’alto, monodirezionale, ma una continua negoziazione che è iniziata tre anni prima di documenta 15 ed è andata avanti durante la mostra durante la quale si sono sviluppati workshop e seminari, incontri pedagogici e di cucina, confronto tra i collettivi, gli ospiti e gli abitanti di Kassel. I luoghi di incontro erano chiamati majelis e le attività contemplavano anche il semplice stare insieme e condividere del tempo: il

nongkrong. Questo processo ha messo in opera una macchina complessa e trasparente di ridistribuzione delle risorse per ciascun collettivo e ha comportato anche l’individuazione di luoghi adatti per accogliere il grande numero di artisti con dormitori, cucine, luoghi di riunione ecc ecc

In questo modo i ruangrupa contestano le abitudini di un’arte globale fondata su Biennali e mostre legate alle logiche di selezione di un mercato che opera legato alle mode del momento e alla ripetizione di artisti-marchio, che si ritrovano ad ogni kermesse. Il focus non è più l’oggetto-merce, ma la condivisione di pratiche e saperi che si innestano in maniera critica nel territorio dove l’artista o gli artisti negoziano la propria estetica con le necessità delle comunità. Documenta 15 quindi si pone in una posizione di equidistanza rispetto alle contemporanee Biennali di Venezia e di Berlino: nella prima infatti Cecilia Alemani opera una raffinatissima selezione estetica dell’arte al femminile recuperando esempi storici oltre che contemporanei appartenenti al main-stream globale, nell’altra Kader Attia mostra un’arte socialmente impegnata e di denuncia, nell’oggettualità dimostrativa dei suoi prodotti.

Documenta 15 non si pone dunque sulla linea del presentare solo delle opere rispetto alle quali lo spettatore ha un’attitudine contemplativa e passiva, infatti nello spettatore medio il display inedito di documenta 15 provocava all’inizio una certa vertigine, perché lontano nel suo complesso da abitudini consolidate del mordi (per quanto si possa masticare nella lettura delle locandine ormai imprescindibili in qualsiasi kermesse) e fuggi. Lo spettatore (anche se loro contestano questa definizione) si trovava a condividere delle storie, dei ragionamenti, delle riflessioni nate da ricerche e pratiche di arte e di vita cresciute nel tempo e nello spazio sociale, economico, culturale del contesto di provenienza. Ecco perché alla fine, almeno per quanto mi riguarda, sono riuscita ad entrare in una nuova logica di fruizione, attiva e consapevole di ciò che veniva proposto secondo plurime modalità e documenta 15 mi ha toccato nel profondo. Anche l’”accusa” di approssimazione e discontinuità estetica per me è pregiudiziale e infondata: opere di qualità, di impegno e di assoluta dedizione nei confronti dell’arte caratterizzavano l’esposizione. Un unico appunto: due giorni per scandagliare tutte le sedi sparpagliate per la città di documenta 15 erano troppo pochi, ma tant’è, il costoso biglietto dava dei termini precisi.

Riguardando la logica distributiva delle varie presenze nei musei il disegno curatoriale, contrariamente a quanto alcuni hanno affermato, appare chiaro e ben organizzato. Nel Fridericianum ad esempio l’introduzione all’intero progetto era affidata alla critica dell’informazione dei press drawings di Dan Perjowschi e alla satirica finta pubblicità che allude alla vendita in franchising del pollo fritto halal di Hamja Ahsan, mentre i quadri delle manifestazioni degli aborigeni australiani, che celebravano la sovranità aborigena di Richard Bell, con richiamo ai 50 anni di resistenza celebrati in The Aboriginal Tent Embassy (gennaio 2022), costituivano un preludio a tutte le realtà dei “Sud del mondo” che qui trovavano un riscatto, una platea dove potersi esprimere e mostrare.

Tutto il piano terra – e questo è un motivo centrale nella logica dei ruangrupa - era dedicato alla pedagogia sia dei bambini con RURUKIDS sia degli adulti con Gudskul. Quindi l’arte per i curatori ha in sé una potenzialità altamente pedagogica, seguendo però una pedagogia alternativa, che asseconda e sviluppa potenzialità, lontano dalla coercizione di un modello dominante che impone logiche di performatività e premialità che proprio in Italia tra l’altro hanno fatto la loro definitoria comparsa con il nuovo governo. Una direzione del resto che non è solo italiana e che privilegia discipline utili e percorsi subordinati esclusivamente alla perpetrazione di un sistema dominante fondato sul progresso infinito, sul consumo e sul privilegio di pochi.

La parte centrale, il cuore del palazzo, oltre che al lavoro di Bell, era dedicata al progetto di una Biennale Rom – OFF-Biennale Budapest, attento a dare spazio ad una cultura sempre tenuta ai margini del sistema dell’arte. Invece il primo piano era occupato da poderosi progetti dedicati all’archivio e quindi alla rappresentanza, alla storia e alla memoria di minoranze e diversità: Asia Art Archive, The Black Archives, Archives des luttes des femmes en Algérie. Dall’altro lato e sullo stesso piano, di seguito si incontrava la Kelektla! Library e collettivi africani come Another Road to Africa Cluster e Centre d’Art Waza, attivi nei loro territori nel mondo delle diverse arti, con radio, riviste, educazione tutti volti all’emancipazione per una visione autoctona e postcoloniale. Il collettivo di base a Tunisi El Warcha porta avanti un design collaborativo e partecipativo, che è stato attivato anche a Kassel con le scuole. All’ultimo piano uno splendido video nato in seno al Komîna Fîlm a Rojava (collettivo di filmmakers fondato nel 2015 nella Siria dell’est) mostrava la tradizione musicale del territorio kurdo che rischia la sparizione. La conclusione del percorso era dedicata al collettivo di attivisti che lavora con i neurodiversi e i disabili Project Art Works.

La mostra quindi non “mostrava”, nel senso canonico del termine, “articoli” come li chiamava Perniola in Arte Espansa (2015) a proposito delle opere della Biennale di Venezia del 2013, non veniva stilato un elenco per quanto allargato, ma voleva condividere prassi, pensieri, insomma esperienze fornite come modelli metodologici per un nuovo tipo di arte, socialmente, culturalmente, politicamente impegnata e inclusiva. A tale fine sintomatici sono alcuni collettivi che si occupano da decenni del problema della terra (the problem of Land, una delle majelis): Inland, una piattaforma collaborativa, basata in Spagna, che lavora sull’arte, i territori, e il cambiamento sociale. Sono coinvolti in movimenti rurali globali che promuovono i diritti delle comunità dei pastori e il mutuo-supporto trans-locale. Il duo Cao Minghao & Chen Jianjun costruisce una complessa installazione con diversi video molto coinvolgenti, disegni e oggetti e anche una tenda nel parco di Karlswiese, che testimonia una ricerca più che decennale sulla decolonizzazione della terra e recupero di antiche pratiche volto alla raccolta delle acque in zone rurali della Cina. Infine la videoistallazione della libanese Marwa Arsanios lavora sull’eco-femminismo, la proprietà comune della terra, la cura, l’autonomia, la lotta degli Indigeni, la protezione dei semi e i diritti della terra. Il video racconta di un lavoro di recupero di una zona di cave, fatto con una cooperativa agricola per migliorare la qualità del suolo e mettere in comune le terre.

Documenta 15 infine mostra un altro modo di fare arte, certo non inedito, ma nuova è l’importanza data a queste metodologie data la centralità della platea di Kassel, che si è sempre caratterizzata per scelte coraggiose e che hanno aperto nuove prospettive. Nel nostro caso si viene coinvolti in un’arte del tutto impastata di vita, di esperienza, di vitalità, di condivisione, di militanza, di sforzi quotidiani, di desideri di essere ascoltati, visti, rappresentati. In generale i “Sud del mondo” si affacciano in una ribalta internazionale importantissima e letteralmente la occupano, almeno per 100 giorni.