Diventare ciò che si è: la storia come circolo dei viventi e della verità
Manlio Iofrida

27.08.2021

La considerazioni sulla struttura della Stiftung come spazio-tempo che abbiamo fatto nella puntata precedente non sono che l’altro lato delle implicazioni di tale concetto dal punto di vista del trascendentale storico, del rapporto fra idealità, empiricità e storicità e dell’intersoggettività. Per illustrare tutto ciò, ripercorrerò un fondamentale saggio di Merleau-Ponty del 1951, dal titolo Il filosofo e la sociologia (lo si veda in Merleau-Ponty, Segni, tr. it. Il Saggiatore, Milano, pp. 135 e sgg.).

Quando Husserl si rende definitivamente conto che la filosofia è “il recupero e la prima formulazione di un Logos sparso nel nostro mondo e nella nostra vita, legato alle loro strutture concrete” e che l’incarnazione linguistica del pensiero, nonché contraddirla, è la vera strada per passare all’idealizzazione, all’universalizzazione, “tutto il rapporto tra la filosofia e la storia si trasforma”, naturale e trascendentale, storico e trascendentale sconfinano e si accavallano l’uno sull’altro e la storia diventa indispensabile al filosofo, “perché rivela loro il Gemeingeist”, cioè la comunicazione fra soggetti, “la comunità di spiriti che coesistono l’uno per l’altro”; il filosofo non può pensare l’essenza dell’umanità in generale svolgendo un’essenza universale precostituita, ma solo a contatto, volta per volta, con gli uomini immersi nella loro corporeità e storicità.

È a questo punto che ritroviamo la Stiftung come genesi spazio-temporale - il paradosso di un trascendentale empirico non ne è che un’altra espressione: “la riflessione più pura scopre, immanente ai suoi oggetti, una «genesi del senso» (Sinngenesis), l'esigenza di uno sviluppo, di un «prima» e di un «dopo» nella manifestazione, di una serie di passi e di atti che si riprendono vicendevolmente, e nessuno dei quali potrebbe essere «contemporaneo» all'altro, presupponendolo come orizzonte di passato” (ivi, pp. 145-6).

A questo punto struttura e storia, significato ideale e storia si dimostrano essere una cosa sola: “un significato sarebbe vuoto se non condensasse un certo divenire della verità”.

Non è certo un caso che qui Husserl e Merleau-Ponty ritrovino Vico nei panni di uno dei suoi massimi continuatori novecenteschi, cioè Lucien Lévy-Bruhl: si tratta di una celebre lettera che Husserl scrisse a quest’ultimo nel 1935 a proposito del rapporto fra antropologia e fenomenologia. L’accesso alla mentalità primitiva, che la ricerca etnografica ha come suo scopo finale, è fondamentale per sviluppare l’essenza dell’uomo, che non è depositata, immutevole, nelle piazze della Grecia.

E non bisogna credere che, ammettendo questa sua dipendenza dall’empirico (in questo caso, dall’etnografia) la filosofia rinunci al suo compito, che è quello dell’universalizzazione: dire che il trascendentale è storico e empirico non significa arrendersi al positivismo del dato, ma comprendere una nuova struttura dell’universalità, che passa proprio attraverso l’empirico, la storicità: è immergendosi profondamente e impareggiabilmente nei dati della storia e dell’economia romana che il più grande allievo di Theodor Mommsen, Max Weber, ha foggiato le categorie della sua sociologia; l’empirico, non che rinchiuderci nell’isolamento di un dato momento storico, è la via attraverso cui quel momento si apre a infiniti altri, genera dei tipi ideali, produce quel collasso del passato e del presente di cui abbiamo parlato a proposito della Stiftung. Nelle parole di Merleau-Ponty:

Il senso più profondo del concetto di storia non è quello di chiudere in un punto del tempo e dello spazio il soggetto pensante; quest'ultimo può apparire così solo a un pensiero che sia esso stesso capace di uscire da ogni spazialità o temporalità per vederlo nel suo luogo e nel suo tempo. In realtà, è la concezione stessa dei rapporti tra lo spirito e il suo oggetto che la coscienza storica ci invita a rimaneggiare. E per l'appunto l'inerenza del mio pensiero a una certa situazione storica che gli appartiene e, attraverso di essa, ad altre situazioni storiche che lo interessano - poiché esso è originario in rapporto alle relazioni oggettive di cui tratta la scienza - fa della conoscenza del sociale una conoscenza di me stesso, richiede e autorizza una veduta dell'intersoggettività come mia, veduta che la scienza dimentica, pur utilizzandola, e che è invece la peculiarità della filosofia. Se la storia ci avvolge tutti, spetta a noi comprendere che quel tanto di verità che possiamo raggiungere non è conseguito contro l'inerenza storica, ma per merito suo. Pensata superficialmente, questa inerenza distrugge ogni verità; pensata radicalmente, essa fonda invece una nuova idea della verità (ivi, 147-8).

Così la storia diventa contatto con gli altri uomini - altri come corpi e natura, come spazio e come tempo; e fra il suo concetto e l’intersoggettività viene istituito un legame strettissimo. Essa diventa anzi uno degli esempi più caratteristici dell’aspetto della nostra esperienza per cui “noi non siamo nella situazione come un oggetto nello spazio oggettivo, e che essa è per noi principio di curiosità, di investigazione, di interesse per le altre situazioni come varianti della nostra, poi per la nostra propria vita, illuminata dalle altre, e considerata questa volta come variante delle altre, infine per quello che ci lega alla totalità dell'esperienza umana, come per quello che ce ne separa.”

E la filosofia (in una consonanza con Croce, di cui Merleau-Ponty fu consapevole) non ha allora altro contenuto che la chiarificazione della storia:

Si chiamerà filosofia la coscienza che occorre conservare della comunità aperta e successiva degli alter ego viventi, parlanti e pensanti (l'uno in presenza dell'altro e tutti in rapporto con la natura, quale la indoviniamo dietro, intorno e davanti a noi, ai limiti del nostro campo storico) come realtà ultima di cui le nostre costruzioni teoriche delineano il funzionamento e a cui non potrebbero sostituirsi.” (ivi, p. 149).

Ma, se questo è vero, al pensiero husserliano sulla storicità viene immediatamente conferito un significato etico-politico: se la razionalità non è un trascendentale precostituito, ma qualcosa che deve essere continuamente arricchito attingendo all’empirico, è chiaro che essa non riposa in un concetto, ma in un’idea o in un’entelechia: per andar subito alle conseguenze politiche, non è il Greco che assorbe nella sua supposta universalità il resto dell’umanità, è l’universalità parziale del Greco e dell’europeo che deve essere continuamente allargata e trasformata, fino a render conto di tutto ciò che l’empiricità spazio-temporale all’infinito (poiché qui stiamo parlando di un processo che non ha fine) le offre.

Infatti (e questa precisazione è fondamentale), il processo di allargamento non è quello di una certa cattiva dialettica hegeliana: la razionalità allargata non è una razionalità serena e conciliata, una sintesi superiore; l’allargarsi dell’entelechia ha veramente qui il ritmo della dialettica negativa di Adorno, di una inclusione di valori e punti di vista che mantengono la loro alterità.

Invece che di dialettica negativa Merleau-Ponty preferisce parlare di questa nuova razionalità storica come di un pensiero acausale, cioé non lineare e oltre il principio di non contraddizione: un logos che, invece di appiattire la polemicità dei diversi e dei contrari, è capace di sostenerne l’eterogeneità e il conflitto; un logos che (niccianamente) fa della contingenza un suo momento radicale, in cui le varie vedute “possono essere considerate vere tutte insieme” (ivi, p. 151).

La storia diventa a questo punto un grande dibattito in cui entità naturali, culture, umanità, spazi-tempi diversi compaiono sul palcoscenico di un grande teatro (come avevamo visto in Goethe e Auerbach) sul quale si fanno compresenti lontano e vicino, passato e presente:

Che questo movimento centripeto e questo movimento centrifugo siano possibili assieme, non è pensabile dal punto di vista della causalità. Solo nell'atteggiamento filosofico divengono concepibili e perfino visibili questi rovesciamenti, queste «metamorfosi», questa prossimità e questa lontananza del passato e del presente, dell'arcaico e del «moderno», questo avvolgersi su se stessi del tempo e dello spazio culturali, questa perpetua sovradeterminazione degli eventi umani la quale fa sì che, a prescindere dalla singolarità delle condizioni locali o temporali, il fatto sociale ci appaia sempre come variante di una sola vita di cui anche la nostra fa parte, e che ogni altro sia per noi un altro noi stessi(ivi , pp.151-2).

Ed è significativo che questa visione di uno storicismo assoluto (che ha un senso del tutto diverso da quello a cui ci abituato la tradizione idealistica italiana, Gramsci compreso) culmini (di nuovo, niccianamente) in una visione del diventare ciò che si è: dove linea e circolo si avvolgono inestricabilmente e dove, esattamente come nel finale auerbachiano di Mimesis, la struttura della storia e quella dell’essere vivente dimostrano la loro identità strutturale di fondo; ecco la conclusione del saggio, che varrà qui anche come sintesi conclusiva di questa serie di interventi sulla storia:

Quando mi rendo conto che il sociale non è solo un oggetto, ma in primo luogo la mia situazione, e quando risveglio in me la coscienza di questo sociale che è mio, tutta la mia sincronia mi diviene presente, attraverso di essa io divengo capace di pensare veramente l'intero passato come la sincronia che esso è stato a suo tempo, e infine esperisco in modo concreto, nel mio presente vivente, tutta l'azione convergente e discordante della comunità storica. La rinuncia all'apparato esplicativo del sistema non degrada la filosofia alla condizione di ausiliaria e di propagandista del sapere oggettivo, poiché essa dispone di una dimensione propria, che è quella della coesistenza, non come fatto compiuto e oggetto di contemplazione, ma come evento perpetuo e ambiente della prassi universale. La filosofia è insostituibile perché ci rivela il movimento in virtù del quale le vite divengono verità, e la circolarità di questo essere singolare che è già, in un certo senso, tutto ciò che esso viene a pensare(ivi , p. 152).