Divenire minore e divenire distanza. Modi della sottrazione
Ubaldo Fadini

30.04.2022

Mi è capitato recentemente, stimolato da Daniele Lamuraglia, di ritornare su alcuni testi che hanno a che vedere con la singolarità del fare teatro: il “manifesto di meno” di Gilles Deleuze, il Riccardo III nella rilettura di Carmelo Bene, alcune osservazioni benjaminiane riprese da Francesco Muzzioli nel suo Brecht con Benjamin. Contro l'immedesimazione (Odradek Edizioni, Roma 2021). Ma non posso dimenticare Ferruccio Masini e la sua preziosa raccolta dedicata appunto a Brecht e Benjamin. Scienza della letteratura e ermeneutica materialista (De Donato, Bari 1977).

Innanzitutto Deleuze e le sue annotazioni, che qui riprendo. Per il filosofo francese, Bene articola un procedimento che è quello del sottrarre, dell'amputare, rifiutando la scorciatoia scontata del sommare, dell'addizionare. E ciò sulla base dell'interrogazione-chiave su cosa scegliere come oggetto dell'amputazione, come elemento da sottrarre all'opera shakespeariana (progetto che si chiarisce anche in quel lavoro su Amleto che s'intitola non a caso Un Amleto di meno).

Bene “non procede per addizione, ma per sottrazione, per amputazione. In che modo egli sceglie l'elemento da amputare è un altro problema da esaminare più in là. Ma, per esempio, amputa Romeo, neutralizza Romeo nell'opera originaria. Allora tutta quanta l'opera, dato che le manca adesso un pezzo scelto non-arbitrariamente, forse oscillerà, girerà su se stessa, poggerà su un altro lato. Amputando Romeo, si può assistere a uno sviluppo sbalorditivo, quello di Mercuzio, che nella tragedia di Shakespeare era solo una virtualità” (Gilles Deleuze, Un manifesto di meno, in Carmelo Bene – Gilles Deleuze, Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano 1978, p.69).

Tutto si svolge nel segno del fabbricare: l'opera si presenta, “si confonde”, con il farsi del personaggio, che viene preparato, originato, sviluppato con i suoi balbettii e le sue variazioni. E' così che il teatro come spazio decisamente critico si propone sotto veste “costituente”, il che vuol dire che la “critica” si manifesta come “costituzione”. In tale ottica, “l'uomo di teatro” è essenzialmente un “operatore” piuttosto che rigidamente un attore, un regista o un autore e per operazione va inteso il movimento specifico del sottrarre ma in termini tali da individuarlo come “già ricoperto dall'altro movimento, che fa nascere e proliferare qualcosa d'inatteso, come in una protesi”, “l'uno inserito nell'altro”.

Indispensabile è appunto l'operazione della sottrazione: si prova a togliere qualcosa, ad esempio a un testo, e si sta a vedere cosa accade, magari pure l'attualizzarsi di potenzialità insospettate, imprevedibili. Si sa che il potere del teatro è legato alla sua rappresentazione d'impatto fortemente critico del potere stesso. ù

Ma per Deleuze, Bene ha un concetto differente di critica: “Quando sceglie di amputare gli elementi del potere, egli cambia non soltanto la materia teatrale, ma anche la forma del teatro, che cessa di essere 'rappresentazione', mentre l'attore cessa d'essere attore. Dà libero corso a un'altra materia e a un'altra forma teatrale, che non sarebbero state possibili senza questa sottrazione. Si potrebbe dire che Bene non è il primo a fare un teatro della non-rappresentazione. Si possono citare a caso Artaud, Bob Wilson, Grotowski, il Living... Ma non crediamo all'utilità delle filiazioni. Le alleanze sono più importanti delle filiazioni. Bene ha alleanze estremamente diverse con essi tutti. Appartiene a un movimento che agita profondamente il teatro oggi. Ma appartiene a tale movimento solo per quanto egli stessa inventa, e non inversamente. E l'originalità del suo procedere, l'insieme dei procedimenti suoi propri ci sembrano anzitutto consistere in ciò: la sottrazione degli elementi stabili di Potere, la quale sprigiona una nuova potenzialità di teatro, una forza non-rappresentativa sempre instabile” (G. D., Un manifesto di meno, pp.72-73).

È da tempo che insisto sull'attenzione deleuziana alle dinamiche della sottrazione, rinvenibile un po' dappertutto, volendo nelle pagine su Lewis Carroll o sull'opera di Samuel Beckett, per citare alcuni autori particolarmente cari al filosofo francese. E d'altra parte una riflessione sul potere del teatro non può che cogliere – e accompagnarsi con – la rappresentazione del potere proprio nel teatro, ritornando a Shakespeare.

Ma Bene si muove diversamente, avanza un'altra concezione della critica che si confronta con il potere sottraendo i suoi elementi più stabili, con il fine di sprigionare nuove potenzialità, delle forze non rappresentative e dunque capaci di sempre differente instabilità. Deleuze ricorda a questo punto il fare un uso minore, come quello di Kafka con la lingua tedesca, per approssimare l'operazione del menomare, dell'amputare, del variare incessante (vero e proprio “'teatro' della lingua”) come esercizio proprio di qualsiasi concreta “minoranza”, richiamando ancora una volta le nozioni di “minore” e “maggiore”, così importanti in Mille piani, nel senso pure di segnalare la possibilità, soprattutto rispetto a quella di “minore”, di assegnare un “contenuto vissuto”.

Ciò vale incisivamente nel momento in cui l'interesse deve andare non tanto “all'inizio o alla fine di qualcosa”, all'origine o al termine, quanto a quello che accade nel mezzo nella rilevazione del movimento, del divenire privo di storia, della ripartizione presente tra un passato e un futuro: “Il divenire, il movimento, la velocità, il turbine, si trovano in mezzo. Il mezzo non è una media, è invece un eccesso. Le cose crescono nel mezzo. Era questa l'idea di Virginia Woolf. E il centro non vuol dire affatto essere nel proprio tempo, essere storico; al contrario. È ciò per cui i tempi più diversi comunicano. Non è né lo storico, né l'eterno, ma l'intempestivo. E' proprio questo, un autore minore: senza avvenire e senza passato, ha solo un divenire, un centro, attraverso cui comunica con altri tempi, altri spazi” (G. D., Un manifesto di meno, p.73).

In breve: si tratta di operare nel senso di realizzare un “trattamento minore”, un rendere minore, sprigionando dei “divenire contro la Storia”, delle esistenze “contro la cultura”, dei pensieri “contro la dottrina”, delle “grazie o delle disgrazie contro il dogma”. E a teatro, afferrato in tale ottica, cosa resta se non luci diverse, gesti e suoni mai visti e inauditi? Resta tutto... si concretizza la potenza di un divenire... Così il teatro si presenta con una funzione politica che è certificata dal suo non rappresentare proprio niente allorquando ciò che delinea, meglio ancora: costituisce, è una coscienza di minoranza in quanto divenire minoritario universale “che opera alleanza qua e là secondo il caso, secondo linee di trasformazione che saltano fuori dal teatro e assumono un'altra forma, oppure si riconvertono in teatro per un nuovo salto” (G. D., Un manifesto di meno, pp.91-92).

È su questo terreno di indagine che vengono ribadite le distanze dalla presa di coscienza che è messa a tema dal teatro brechtiano, individuato come espressione di un tentativo in fondo “maggiore”, così mi viene da dire, d'interpretazione puntuale per l'ottenimento di una soluzione, di una de/terminazione essenziale nel campo dell'acquisizione di una coscienza di classe: si tratta sempre, in quest'ultimo caso, di un teatro dalla “precisione chirurgica”, della sperimentazione mirata. Deleuze individua quindi la riserva di Bene nei confronti di Brecht nel fatto che l'autore tedesco compie la massima “operazione critica” sullo “scritto” e non sulla “scena”, come sarebbe opportuno fare.

Rispetto a tale smarcamento, direi che non bisogna però mai dimenticare che ciò che preme a Brecht è la corretta posizione dell'intelligenza nel momento in cui il pensare si presenta come forza produttiva in grado di cogliere il nesso complesso di emozioni e interessi, il loro ambiguo rapporto che va messo a valore per non indurre ad un atteggiamento di carattere puramente immedesimativo, “empatico”, come si dà nel teatro borghese.

Nel suo studio, Muzzioli ricorda opportunamente come Masini abbia sottolineato il carattere anti-psicologico del teatro epico, dello straniamento, quella sua apertura che lo qualifica come un teatro per un “senso delle possibilità” in grado di supportare l'intelligenza critica della realtà data, “approfondendone i contenuti e le antinomie, sondandone gli abissi e percorrendone i labirinti” (F. Masini, Brecht e Benjamin. Scienza della letteratura e ermeneutica materialista, p.152).

Quello di Brecht è un teatro della realizzazione di distanze che esalta la funzione dell'interruzione attraverso il lavoro specifico – una variazione continua della cosiddetta “questione della tecnica”: mi verrebbe da dire, un po' scherzando – su quella gestualità che rinvia alla potenza della corporeità, con la sua metamorficità di fondo. Ancora Muzzioli ripercorre l'applicazione da operatore “del povero Bertolt Brecht” sorretta dalla consapevolezza estrema che gli consente di esprimersi così: “Lo confesso: io / non ho nessuna speranza. / (…) / Quando gli errori si sono esauriti / siede come ultimo compagno / di fronte a noi il nulla” (cfr. F. Muzzioli, Brecht con Benjamin. Contro l'immedesimazione, p.52).

E ancora, prendendo dunque atto di una condizione di lavoro costitutivamente incerta, precaria, l'idea dell'autore è quella di rendere “universale” lo straniamento, di restituirlo come piano complessivo di esistenza fino al punto da poter pensare di arrivare a “vivere in terza persona”, a riprova di quell'anti-soggettivismo radicale che unisce la sensibilità brechtiana a quella di Benjamin.

Per concludere, riprendo le osservazioni di Muzzioli sui Dialoghi di profughi perché al loro interno trovo – in modo forse “stravagante – un paio di considerazioni dei protagonisti del testo, appunto profughi: “La migliore scuola di dialettica è l'emigrazione. I più acuti dialettici sono i fuoriusciti (…) per le contraddizioni hanno un occhio clinico”; “Dove niente sta al posto giusto non c'è niente, lì c'è ordine”; “Io sono sempre stato contro i legami del sangue, esattamente come contro ogni altra cosa che mi legasse” (cfr. F. Muzzioli, Brecht con Benjamin. Contro l'immedesimazione, pp.75-76).