Dimitris Lyacos e il tragico contemporaneo
Gianluca Viola

24.06.2023

«Vi è un istante di sospensione in cui tutto è travolto, e vacilla: la realtà solida e profonda che la persona si arroga viene meno, e, in luogo di essa, restano presenze assai più intense, mobilissime, violente, inesorabili. E in questo disorientamento lo spirito distingue male ciò che imperversa nell’inferno ove lo trascina e precipita il suo turbamento: l’oscura diversità dei fantasmi e degli incubi di cui egli lo popola, tradisce la sua estrema emozione. E null’altro sussiste più all’infuori di forze che possiedono esse stesse una violenza paragonabile a quella della tempesta scatenata». Queste righe postume di Georges Bataille descrivono l’atmosfera perturbante nella quale l’uomo viene a trovarsi nel momento in cui si trova bruscamente rigettato «fuori di sé», incapace di mantenersi nella forma di un’identità stabile e compiuta. L’«istante di sospensione in cui tutto è travolto» è, naturalmente, in Bataille, l’istante della morte, l’istante della mia morte o - per dirla con Maurice Blanchot - «l’istant de ma mort désormais toujours en istance»: non l’istante di una morte effettiva, di una morte compiuta, realizzata, ma l’incompiutezza stessa della morte, lo sprofondamento all’interno di una esistenza senza esistente in cui a dominare è un sentimento d’impotenza e d’orrore di natura tragica.

Mi è sembrato di avvertire la presenza di quest’atmosfera – di quell’ il y a che Rocco Ronchi definì assai giustamente «il fondamento tragico dell’esistere» - nella lettura della trilogia Poena Damni, dello scrittore greco Dimitris Lyacos, uno dei più importanti eventi letterari del XXI secolo. L’articolato mélange di differenti modalità di scrittura e di stili che compongono l’opera – concepita come un permanente work in progress, continuato per trent’anni e non ancora concluso – ha permesso più volte ai critici di presentare quest’opera come esempio di letteratura post-moderna. La compresenza di prosa, lirica, drammaturgia, il riferimento a differenti tradizioni culturali - ai poemi omerici, alla sapienza biblica, a una certa filosofia pre-socratica, ma anche alle più recenti acquisizioni della fisica, ai culti misterici della Grecia antica, alla tradizione folkloristica e popolare di alcune zone rurali della Grecia attuale - sembrerebbe giustificare un accostamento di questo genere.

A ben vedere, però, in Lyacos, piuttosto che la «fine delle grandi narrazioni» e la revoca di un senso vincolante ai grandi sistemi di conoscenza e di prassi, è maggiormente viva la coscienza dell’insufficienza di tali grandi sistemi, di tali grandi narrazioni, a dare contezza dell’esperienza soggettiva di disorientamento dell’uomo all’interno della storia contemporanea. La «realtà solida e profonda» della nostra esperienza attuale e della nostra attuale presenza al mondo si vede proiettata all’interno di un il y a, luogo tanto metafisico quanto reale, all’interno di una waste land post-bellica, post-apocalittica, nella quale, in ossequio al tragico in cui essa si radica, fin da principio tutto è già accaduto a nostra insaputa e non si tratta se non di raccogliere i cocci di una memoria impossibile, nella quale non puoi sapere «cosa hai fatto, se è davvero ciò che ricordi. Chi può dirtelo. O la tua storia fin qui. O se il tuo nome, quello che nascondi, se è un nome alla fine di una serie di nomi» (D. Lyacos, Z213: Exit, trad. di V. Sebastio, Il Saggiatore, 2022, p. 129).

La tradizione, dunque, serve, in certo senso, la scrittura frammentaria, favorendo la decomposizione dell’identità non in un insieme di codici, bensì all’interno di esperienze di pathos comunicativo, di voci che si susseguono e provengono da un altrove accessibile, in tal modo, all’uomo in fuga le cui visioni sono al centro di questo “poema”, un altrove che la fuga dell’uomo non è destinata a raggiungere, dacché esso esiste in quanto insopprimibile luogo della mente nel quale si scatenano quei fantasmi e quegli incubi che infestano questa stessa mente, così flebile, così incerta. Non stupisce che, effettivamente, in merito alle esperienze di pathos comunicativo, uno dei temi assolutamente centrali di tutta l’opera sia il sacrificio: in una intervista rilasciata a un quotidiano italiano, Lyacos ha fatto riferimento a un passo del Levitico 16, 7-10, nel quale si parla di un duplice capro espiatorio, uno sacrificato a Yhwh, l’altro «mandato ad Azazel nel deserto» («Lyacos: emarginati, dramma post-moderno», Avvenire, 1-12-22). E quale simbolo migliore del non-sacrificato per eccellenza – colui che non suggella il patto ed è destinato ad essere l’escluso, l’esiliato dall’identità - per incarnare quell’istante della morte per sempre in istanza, quell’«istante di sospensione in cui tutto vacilla»?

Se la cifra dello stile di Lyacos è il disordine, ricercato a imitazione della vita dell’universo, aspetto particolarmente interessante del suo linguaggio appare la polisemia di alcuni termini chiave, talvolta desunta da inediti accostamenti tra il greco antico e quello moderno. La prima è certamente quella che attiene al termine éxodos, indicante, nella contemporaneità, l’«uscita» - da un edificio, da un luogo, etc. – ma rimandante anche, naturalmente, all’esodo biblico e perfino ai fenomeni migratori più recenti, ai quali la Grecia certo non è stata indifferente. Il termine éxodos rimanda, però, anche alla struttura stessa del teatro tragico, nella quale esso sta ad indicare la parte conclusiva della tragedia, quella che vede l’«esodo», l’uscita del coro, il momento nel quale, invece, le singolarità tragiche si ritrovano, secondo il meccanismo tragico, appunto, del tutto prive di qualsivoglia via d’uscita.

È come se, nel suo tentativo di ricordare, di ricostruire una memoria il più possibile credibile del disastro in cui il mondo è precipitato, il protagonista s’abbandonasse ad un’opera di creazione che a ben vedere è più giusto definire di “dis-creazione”: ciò che viene ricordato non possiede la potenza di creazione di un ordine, bensì procede come per sottrazione, per diminuzione, secondo una chimica dissociazione di quell’identità che solo vagamente appare quale esito possibile del percorso di fuga. Tale tragicità è resa esplicita anche nella forma, grazie alla sacra rappresentazione sviluppata nel volume Con la gente dal ponte, nel quale l’anonimo fuggitivo assiste, in uno scenario sempre più angosciante, ad una performance teatrale nella quale è messo in scena il classico motivo del ritorno dal mondo dei morti, concretizzato nella drammatica vicenda di un uomo che cerca di rendere reversibile la morte della donna di cui è innamorato. L’alone orfico che circonda la rappresentazione può naturalmente palesare la componente rituale di tale pièce, ma si tratta di un rituale che conduce a uno scacco decisivo: la morte non è un’esperienza reversibile, l’Io è fermo in un’impasse tragica, il passato non è restituibile, la memoria non è restaurabile. «Non guardare dietro. Vai avanti. È davanti a te, arriverà. Anche il tuo giorno arriverà.» (D. Lyacos, Con la gente del ponte, trad. di V. Sebastio, il Saggiatore, 2022, p. 85). Il tema della resurrezione dei morti – presente a svariato titolo e con maggiore o minore intensità in moltissime culture al mondo, sarebbe meglio dire in moltissimi “mondi” – apre quel fondamento tragico dell’esistenza così disvelatosi alla possibilità di un qualcosa d’ulteriore, di un ad-venire come promessa di compimento collettivo oltre la morte.

I due elementi legati alla certezza dell’altrove e alla speranza dell’ulteriore determinano la tragicità dello scenario successivo, in cui il protagonista ritrova in treno un libro dove è narrata la vicenda di un Robinson contemporaneo, sperduto su un’isola deserta e impegnato nella sua sopravvivenza. Nella stessa intervista citata precedentemente, Lyacos ha specificato che si tratta di un «Robinson capovolto», giacché «il protagonista perde gradualmente il supporto della tecnica e delle sue stesse possibilità. Ma, nonostante tutto, riesce a mantenere intatta la voglia di vivere.». Il motivo mitico, in questo caso, è legato alla lotta fra l’uomo e l’ambiente, al conflitto tragico fondamentale nella contemporaneità: perduto nella distruzione di un mondo impossibile da ricomporre e stretto ancor di più nella morsa della morte che continuamente, irreversibilmente, avanza, l’uomo cerca di opporre una qualche forma di resistenza, altrettanto tragica, rispetto a questo momento apocalittico decisivo. La certezza dell’altrove e la speranza dell’ulteriore divengono allora la molla che fa scattare il meccanismo tragico, il cui esito, come già avevano bene inteso gli idealisti tedeschi, non può essere se non la perfetta indifferenza dei due opposti, a un tempo vinti e vincitori, l’identità dell’elemento soggettivo e di quello oggettivo, l’istante sovrano.

V’è naturalmente una profonda differenza. La tragedia antica era principalmente tragedia della regalità, tragedia delle stirpi eroiche: esse, perdendo progressivamente d’identità, liberandosi a poco a poco di se stesse, venendo esautorate del loro potere, raggiungevano la sovranità come estrema diminuzione, come completa dimissione del loro eroismo. La tragedia contemporanea messa in scesa da Lyacos è la tragedia dell’emarginato nella terra desolata, dell’escluso, di colui che non ha accesso, fin dall’origine, né all’identità, né al potere – di colui che conosce l’istante della morte come istante per sempre in istanza e fin dall’inizio è privato di se stesso; è la tragedia del non-sacrificato, di colui che non appartiene al patto: questo statuto gli consente di vivere «fuori di sé» e di guardare le macerie della storia con lo sguardo dell’Angelus Novus benjaminiano. Anch’egli, come l’angelo della storia, vorrebbe «restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto» - secondo la celebre IX tesi di Walter Benjamin. Giacché egli però non ha alcuna tempesta detta progresso che lo spinga verso il futuro, la sua tragicità sta nella disperante attesa di un istante altro, di un istante che impedisca il compimento della distruzione, di un istante in cui egli stesso possa affermare, in quanto rappresentante di un’umanità umiliata ma viva: «sono salvo, non del mondo / neppure fuori da esso, ma nell’inconsistente punto d’urto / e decollo del mondo lì dove è concepito l’urlo / comunica la manovella / e le ruote / d’istinto spingono / la carrozzella dell’infinito» (D. Lyacos, La prima morte, trad. di V. Sebastio, il Saggiatore, 2022, p. 41).