22.01.2022
Tra maggio e giugno. Me lo aveva confermato a un anno esatto dall’inizio di tutto, da quando il covid cioè ha smesso di essere una rogna esotica per piantar tenda a Vo’ e Codogno e sconvolgere le nostre vite o ricordarci se non sia il caso di tornare a pensare a cosa sia la vita e quale il mondo che vogliamo.
Il cerchio, dita incrociate, si stava per chiudere: le prime vaccinazioni, la lenta decrescita dei contagi. Avrebbero ripristinato i voli economici Niš -Bergamo o al peggio sarebbe venuto a Vicenza in pullman, uno di quelli che fanno la spola tra Serbia e Nord Italia, muratori, badanti, pacchi all’indirizzo di chi è rimasto. Sarebbe venuto eccome.
Per un settantanovenne che ha vissuto tra la gente girando il mondo l’annosa clausura era già l’anticamera di un contrappasso infernale. “Le mie ossa non reggono più gli inverni balcanici, sai che dolori a spaccare la legna e la rakija non mi scalda abbastanza”, si era lamentato col tipico condimento di humor con cui sdrammatizzava i discorsi sulla vecchiaia.
Invece no. Non erano i soliti reumatismi. O forse il pensiero dei reumatismi non gli aveva permesso di riconoscere in tempo un male peggiore. Dieci giorni dopo, la diagnosi del cancro e delle metastasi ossee, un’‘invasione’ fulminea che non gli ha dato scampo.
Ci siamo rivisti per dirci addio attraverso lo schermo di un cellulare in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità: era immobile sul letto di casa (aveva rifiutato l’inutile ricovero), la voce persa in un respiro affannoso, tutto bianco come Caronte salvo quel po’ di bragia sulle guance e l’azzurro degli occhi ormai ialino.
Il bimbo di Mason City (Iowa) stava per addormentarsi per sempre nel villaggio di Knez Selo, su una collina poco lontana da Niš, nel cui piccolo cimitero disadorno è ora sepolto. Dal 1963 aveva chiuso con gli Stati Uniti, la patria matrigna. A chi verrebbe in mente un rifugio migliore di una pensione di ragazze madre alla periferia di Madrid per sfuggire al Vietnam? All’America di Whitman non aveva mai creduto, la sua era un Saturno che divora i propri figli raccontando la menzogna che le armi servono a difendersi, un Cerbero che mentre fa da guardia al mondo si nutre delle sue disuguaglianze.
Da Madrid alla Costa del Sol e alle sierra andaluse perlustrate a cavallo, trent’anni fitti di vagabondaggi, ascesa alla Jay Gatsby, passioni ed eccessi, un condensato di novelle del Decameron, triangolazione di ‘fortuna’, ‘industria’ e amori. Poi lascia la Spagna e i cocci di un matrimonio e, per ritrovare se stesso, insegue il mito delle origini in Repubblica Ceca ripercorrendo all’inverso i nomi sul proprio albero genealogico sulla traccia dei pionieri Polansky.
Lì, mentre svolge ricerche d’archivio, e ancora non sa che è su una falsa pista, che io è un altro e l’uomo dimesso che non gli assomigliava in niente, neanche per tempra, non era suo padre, si imbatte in un più grande occultamento: documenti che attestano l’esistenza di un campo di concentramento nel comune di Lety. Un campo singolare, le guardie sono ceche e gli internati più rom che ebrei, sottoposti a corvée per il principe Karel Schwarzenberg.
Nel libro della sua storia, dopo la giovinezza scapestrata, risse pugilato autostop, e il nuovo avventuroso inizio in terra di Spagna questo è il terzo capitolo, dove si legge: io è gli altri. La denuncia, la ricerca dei sopravvissuti, la lotta per la difesa dei diritti dei rom e, conferendo appena il ritmo del verso alla fedele trascrizione delle testimonianze, il battesimo poetico: Living Thru It Twice, del 1998, è il suo primo libro in versi dato alle stampe.
L’intimismo delle prove precedenti (allora inedite) già abbandonato. Nel 1999 viene chiamato dall’Alto Commissariato per i Rifugiati in Kosovo come intermediario tra le istituzioni e le enclave rom perseguitate dagli albanesi e cacciate dai serbi. In fondo tutto torna se i suoi veri antenati erano partiti da un villaggio sul Baltico, “gente che viveva sui carri, zingari bianchi che dovevano viaggiare, che non morivano mai dov’erano nati”.
La madre gli mentirà fino all’ultimo, la verità lo folgora quando si imbatte in una vecchia lettera indirizzata a lei. Il prete, quello che sapeva usar le mani se la parola non bastava, era lui suo padre, Polansky era in realtà uno Schneller, sangue vichingo nelle vene.
Ovunque andasse Paul si portava appresso un’aura di storie talmente vere da sembrare inverosimili, come quando organizzò la fuga in Macedonia di centinaia di rom e ashkali kosovari, prendendo a prestito camper e furgoni, o quando, Orfeo beat, all’irruzione di una banda di skinhead durante un suo reading di poesie sugli zingari, li avrebbe ammansiti a suon di voce passando a modulare versi sul pugilato.
Paul aveva infine messo su casa nei dintorni di Niš, da dove gli era facile raggiungere le famiglie rom del Kosovo e soprattutto quelle del campo profughi fuori Mitrovica (più facile che convincere ONU e caschi blu che urgeva evacuare il campo al più presto perché i cumuli di scorie tossiche nelle vicinanze facevano ammalare i rifugiati di gravi forme di saturnismo), ma restava un uomo senza dimora che, nella consapevolezza di dovere fare a meno di Dio, si sentiva investito di una responsabilità prometeica spendendosi nell’attivismo civico e nella scrittura.
Refrattario alle ardue speculazioni critiche e agli evanescenti sentieri continuamente interrotti della parola poetica modernista e postmoderna, riteneva che la parola, se disgiunta dall’agire, sia condannata all’estenuazione e all’impossibilità di dire la realtà. La vita non è speculazione, è azione. Sangue che scorre. Violenza. La parola stilla dalla ferita aperta. Non è balsamo, né sublimazione, ma schiaffo e cicatrice.
Anche il rapido abbandono dell’io lirico non aveva certo a che fare con l’impersonalità teorizzata dalle poetiche novecentesche, era la sua istintiva risposta all’invito di Ferlinghetti ai poeti – “uscite dai vostri studi, / aprite le vostre finestre, aprite le vostre porte / siete stati ritirati troppo a lungo / nei vostri mondi chiusi” – che per lui voleva anche dire che si deve scrivere quel che si è vissuto più che quel che si pensa; era una questione di deontologia, come quella che obbliga il reporter alla testimonianza senza filtri; rispondeva all’esigenza di dar voce agli altri, i vinti della Storia, cogliendo le parole, tanto più vere quanto più sofferte, dalla loro bocca; veniva, infine, da una vena narrativa (Polansky è autore anche di due romanzi e biografie) alimentata alle fonti di London, Hemingway (da cui l’essenzialità formale oltre che temi e passioni condivisi), dei poeti beat, di Bukowski.
Con Kerouac avrebbe potuto dire di sé “sono uno straniero infelice”, ma preferiva interpretare l’infelicità degli altri, dei più ‘stranieri’ tra questi, zingari, senzatetto, immigrati, prostitute. Il che era certo anche un modo per rendere più sopportabile la propria. Perché è certo: “Puoi vincere sul ring, / ma non vincerai mai / più di un paio di round / nella vita”.
Avventure e disavventure di un alter ego lungo la strada o per le senda di Spagna, safari e corride, bassifondi e bordelli, la vita degli zingari nel campo di Lety o in quello di Mitrovica, storie ‘eversive’, il cui oggetto è l’eccentrico, l’inconfessato, l’emarginato, ciò da cui per vergogna, malafede, egoismo o pavidità si tende a distogliere lo sguardo. Sempre letteratura e testimonianza si incontrano e si fondono fino al quasi ossimoro del reportage in versi. Sempre Polansky coglie le sue storie nei semenzai della violenza, nel buio delle strade come in quello dell’animo.
La violenza non è solo una manifestazione del male. Del resto il diavolo è loico e gli uomini, usi alle sue sottigliezze, hanno imparato a rivestirlo, il male, di perbenismo e luccichii oltre che dell’ipocrita razionalità delle leggi che lo perpetuano. Nei versi di Polansky vibra anche una violenza amorale, animale, un richiamo di natura, violenza che spande ciò che è dentro l’uomo, il sangue, nient’altro che il sangue, portando con sé la rivelazione di un’intimità universale e in definitiva affratellante, pietosa, irenica.
La sente, in tutta la sua lacerante contraddizione, il cacciatore nella savana (“zebre, gnu, antilopi di tutti i tipi e, appisolati intorno a questo branco variegato, come se tanta abbondanza li annoiasse, i grandi felini. […] In un potente fiotto di adrenalina ho infine sentito di esistere. Ne condividevo il patrimonio genetico. Appartenevo al branco, come i leoni e i leopardi), la sente il pugile sul ring (“È bello colpire, essere colpito. / Sentire che tu e l’altro / siete davvero fratelli di sangue / nel caldo ventre della violenza. // Il dolore arriva solo / quando ti levano le bende dalle mani, // e ritorni alla realtà / soffrendo / come un normale essere umano”).
“Io scorro. Io sono”. A sigillo dei Sonetti a Orfeo. E chi se ne importa se Rilke non c’entra nulla con Polansky.
Il guerriero Schneller-Polansky si lamentava dello sfregio degli anni che gli drenava le forze, ma quasi fino alla fine confidava che avrebbe saputo ancora dare, all’occorrenza, un montante come si deve.
“Comunque sia morirò / intrappolato in qualcosa”. Chiude così la poesia, tra le sue prime, incisa sul lungomare di Caorle.
Intrappolato in cosa te ne sei andato? Nei ricordi di tanti che ti sono in debito di averti conosciuto, nel cerchio degli sbagli commessi e che non ti lasciavano in pace (come ancora scrivevi in versi recenti), nel codice prescrittivo del genoma? O nel fantasma della tua voce? Che la tua era una poesia orale, che aveva bisogno della gente intorno, legata indissolubilmente alla profondità arcaica della tua voce ritmata e sospinta dalle anafore che continuamente ti oltrepassava per disperdersi nelle onde come i marinai di un antico villaggio vichingo.
WINDOW ON MY PAST