11.01.2021

Design all’appello

Mauro Bellei

 
 
 

Oltre alle applicazioni, nel design vi sono le idee, e queste sono di due tipi. Alcune si originano dal design stesso, e sono la visione del mondo che esso sottende. Per certi versi, è la parte più bella. C’è gente che ritiene invece che nel design contino i metodi. È possibile porre l’accento sui mezzi o sui fini – è questione di gusti –, ma i mezzi possono produrre fini meravigliosi.

Questo periodo è l’elaborazione di un frammento di una conferenza che il fisico Richard Feynman tenne nel 1964 a Firenze ma con una piccola e sostanziale variazione: la sostituzione della parola scienza con la parola design.

Leggendo Il piacere di scoprire dello stesso Feynman mi sono imbattuto in quello che cercavo. Volevo esprimere in poche righe che cosa fosse il design e lì, in quel discorso, ho trovato il pensiero giusto grazie a un piccolo trucco. In fondo anche questa manipolazione può essere considerata un’operazione di design.

Ci accingiamo a uscire da una pandemia planetaria con la schiena spezzata: una botta da ko mondiale. Una volta sconfitto il virus, è naturale chiedersi come potremo ricominciare, con quale nuova visione del mondo e come rendere possibile quella visione. Naturalmente anche il design è coinvolto nella costruzione di questa prospettiva, e mai come in questo caso si può parlare di design con la D maiuscola, anche se tutti sappiamo che il design ha peccato.

Molti operatori del settore per più di venti anni hanno proposto discutibili formalismi, e trasformato il design in una frottola in forma di fasulla ironia o minimalismo fine a se stesso, ubriacandosi di effimeri successi e illudendo sprovveduti negozianti per poi alla fine abbandonarli senza risposte. Il covid qui non c’entra nulla: chi è stato costretto ad abbassare le saracinesche l’ha dovuto fare molto prima della pandemia. E questo perché un oggetto non può essere lanciato sul mercato solo sulla base di valutazioni dei dati di vendita. Nei dati, infatti, non potremo mai trovare quella nuova visione del mondo che il design sottende e della quale adesso abbiamo un disperato bisogno.

Gli ingegneri e gli architetti costruiscono case, i matematici esplorano i numeri, i filosofi lavorano con i concetti, i fisici si muovono tra atomi e particelle, ma che cosa fa un designer? Provate a chiedere in giro. Faticherete molto a trovare qualcuno che riconosce il designer come colui che cerca di staccarsi dal presente per tentare di dare alla società la visione di un mondo diverso. E pensare che il design è nato quasi due secoli fa proprio con questo proposito.

Tutti, compreso chi si occupa di design, siamo chiamati a rispondere all’emergenza con delle proposte. Diciamo subito che non serve disegnare nuove mascherine: quelle chirurgiche vanno benissimo, a meno che non ci si rivolga ai bambini. Gli itinerari per provare a dare una risposta sono diversi. Io comincerei con lo svolazzare sulle pagine legate al rapporto tra progetto e ambiente nella Speranza progettuale di Tomás Maldonado, per poi andare a intrufolarmi tra altre pagine, quelle di Giovanni Klaus Koenig nel suo Il design è un pipistrello mezzo topo mezzo uccello. Nel frattempo, curioserei dentro al dialogo che cerca Enzo Mari con le persone comuni con la sua Proposta per un’autoprogettazione, per poi dare un’occhiata al lavoro di Bruno Munari mentre spio attraverso i vetri di Carlo Scarpa la vaga atmosfera sognante che restituiscono. Chissà, forse alla fine un’idea che vada oltre il mero scavalcamento dell’oggi potrebbe anche arrivare.