Depressione e capitalismo: una via d'uscita comunitaria
Gianluca Viola

26.02.2022

Un breve saggio, recentemente pubblicato dalla filosofa Francesca Rigotti (F.Rigotti, "L'era del singolo", Einaudi), ha ribattezzato il contemporaneo come "era del singolo" o "era del singolarismo". Secondo la ricostruzione proposta da questo brillante studio, negli ultimi decenni del Novecento – in quel periodo che, successivo alle lotte politiche degli anni 60 e 70, è stato denominato, in Italia, "grande riflusso" dal pubblico al privato – si sarebbe prodotta, all'interno soprattutto delle società liberali e democratiche, una certa valorizzazione, sempre più accentuata, della posizione individuale dei cittadini-consumatori e della propria identità, considerata unica, irripetibile e non più vincolata né ad un'appartenenza etnica, né a rapporti di classe, né ad istanze religiose.

Questa passione della singolarità - per altro, in un momento in cui sia l'ontologia, sia l'ecologia contemporanea, sia i progressi delle scienze, contestano apertamente il primato dell'individuo - è oggi incoraggiata senza sosta dalla politica (la dottrina, ancora affascinante per molti, del self-made man...), dai nuovi media (basti pensare ai miti degli imprenditori digitali di ultima generazione, degli influencers et similia), da un certo tipo di psicologia positiva (ad esempio tutto ciò che ruota intorno al self-help, una vera e propria industria).

Il discorso dell'era singolarista suona più o meno così: Tutta la tua felicità e tutta la tua infelicità dipendono unicamente da te e dalle tue capacità, qualsiasi successo che otterrai nella vita sarà dovuto al tuo impegno e alla tua dedizione, così come ogni fallimento sarà dovuto al tuo scarso impegno e alla tua poca dedizione. La tua felicità coincide perfettamente con la tua auto-realizzazione; questa s'identifica con la tua affermazione all'interno di uno status economico e sociale definito dai parametri dell'attuale sviluppo e dell'attuale contesto.
Un discorso di questo tipo, come la stessa Rigotti si affretta a spiegare, può condurre essenzialmente in due direzioni: la prima è quella di suscitare quel qualcosa che gli antichi greci definivano hybris, una visione fortemente unilaterale, ignara dei propri limiti ed indifferente nei confronti della propria finitudine, che non può avere altro esito se non il tragico; la seconda è, invece, un eccessivo sovraccarico nei confronti dell'individuo stesso, roso dalle maglie dell'isolamento - poiché l'eccezionalità e la singolarità, intese in questo senso, sono l'anticamera di una solitudine feroce – e da una spietata competizione per l'auto-realizzazione, che può condurre a fenomeni di auto-sfruttamento, finalizzati ad aumentare la produttività per raggiungere sempre nuovi obiettivi nell'auto-formazione professionale o sociale – secondo il filosofo Byung-Chul Han, è proprio questo sottile meccanismo ad aver innescato il numero sempre più ampio di casi di burn-out nelle nostre società.

Proprio sul finire del secolo scorso, tra l'altro, il sociologo francese Alain Ehrenberg, in un saggio intitolato programmaticamente La fatica di essere se stessi, aveva analizzato il rapporto tra questa nuova forma di "singolarismo" e la depressione: quest'ultima è, in qualche misura, intrinseca alla società contemporanea e al suo sistema di valori. L'insistere sulla responsabilità dell'individuo singolare, unico, irripetibile, impegnato nella propria realizzazione unilaterale, porta inevitabilmente alla colpevolizzazione di colui il quale, invece, non raggiunge i traguardi economici, sociali e culturali che la società e il sistema produttivo si attendono da lui.

Paradossalmente, proprio l'individuo che avrebbe dovuto essere del tutto svincolato dalle macchine che per secoli lo hanno trasceso – la patria, la Chiesa, la classe sociale -, contrae una sorta di debito con la società e con il sistema produttivo: il grado così elevato di libertà e di possibilità che gli viene attribuito pretende d'essere ricambiato con il massimo sfruttamento raggiungibile di queste libertà e di queste possibilità; il sistema di valori del tecno-capitalismo non ammette mancanze e non può permettersi ingranaggi che non siano ottimizzati. La depressione – appunto, la fatica, il tedio e l'alienazione dell'auto-realizzazione al servizio della macchina – rappresenta un ritorno del rimosso della società capitalistica e segna i contorni del lato oscuro del culto della singolarità.

Quella "pressione della realtà", sui cui si concentra Rigotti, risulta, per un numero sempre crescente di persone, così forte da esacerbare ancor di più l'isolamento e la solitudine, al punto da convincere gli individui dell'assenza pressoché totale di qualsiasi forma di via d'uscita. Una pagina di un testo frammentario di Walter Benjamin – datata 1921 – aveva già pioneristicamente descritto questa forma di "realismo capitalista", nel suo rapporto con la condizione psichica di coloro i quali vi sono sottoposti; egli parla, genericamente, di "ansie", che sarebbero "una malattia dello spirito che è propria dell'età capitalistica".

A differenza della religione cristiana, il capitalismo – definito da Benjamin un "parassita" del cristianesimo e considerato come una sorta di "nuova religione" -, non consente alla popolazione più povera e sofferente una via d'uscita spirituale alla propria condizione: piuttosto, fornisce i presupposti ideologici e, talvolta, la base materiale per l'uscita individuale da una condizione disagiata.

La presenza di questa possibile via d'uscita – in realtà certo non sempre garantita – attraverso le armi della singolarizzazione e dell'isolamento esistenziale, finisce col favorire sempre di più i fenomeni depressivi in coloro che, nonostante questo sostrato ideologico e questa base materiale, non riescono a perseguire l'auto-realizzazione, che non significa altro che la realizzazione di sé in quanto soggetto-oggetto del sistema produttivo e di consumo capitalista. Inoltre, questa mancata auto-realizzazione, non può che far sentire colpevoli gli individui.

Secondo Benjamin: "le ansie sono l'indice di questa coscienza colpevole dell'assenza di una via d'uscita. Le ansie nascono dall'angoscia della mancanza di una via d'uscita comunitaria, non individuale-materiale." (W.Benjamin, "Capitalismo come religione", in Id., "Senza scopo finale. Scritti politici 1919-1940", Castelvecchi, p. 46). Una certa esigenza di ricerca d'una via d'uscita comunitaria agli eccessi morbosi della contemporaneità è, d'altronde, espressa oggi ai lati più estremi degli schieramenti politici globali: da un lato, essa si sostanzia nel ritorno a forme anche molto negative e pericolose di patriottismo, nazionalismo e nuova fondazione della comunità su basi esclusive, legate alla lingua, alla cultura d'appartenenza, allo stanziamento sul territorio e allo stile di vita; dall'altro, invece, nella fondazione di un discorso, per un verso globalista – fondato su quelle che sono state definite "moltitudini", dopo l'abbandono del concetto vetusto di "popolo" - e per un altro verso assai identitario, specie nelle comunità sorte intorno alle minoranze etniche, religiose o legate all'orientamento sessuale.

In entrambi i casi, nonostante la presenza di una volontà di superare gli eccessi individualistici in nome, appunto, di istanze comunitarie, rimangono immutate alcune basi fondamentali dell'era del singolo: la pretesa unicità, eccezionalità, autorità sul proprio destino e possibilità di scelta rimane legata all'individuo, stavolta in quanto membro di una determinata comunità. Non c'è certamente da augurarsi che le "istituzioni" che hanno storicamente trasceso l'individuo ritornino ad assumere carattere vincolante e a presentarsi, nuovamente, come da qualche parte già accade, come i soggetti della storia globale contemporanea.

Non c'è da augurarsi nemmeno che il culto del singolo condizioni e alteri le possibilità di rottura insite nelle esperienze che tendono al superamento della situazione attuale. Al depresso non può porsi unicamente davanti la "scelta" tra solitudine e moltitudine: l'esigenza di una via d'uscita comune, d'una via d'uscita condivisa, non riguarda le singole – appunto – posizioni politiche, ma qualcosa di, insieme, più superficiale e più profondo.

La "pressione della realtà", soprattutto per quel che riguarda la crisi ecologica – che non si ferma al collasso ambientale, ma riguarda diversi fattori, in primis la psiche -, impone di pensare una comunità che non solo si lasci alle spalle il culto del singolo, ma che rifiuti di fondarsi su qualche forma d'identità preliminare e vincolante – fosse anche l'umanità intera, intesa in senso astratto.

La riflessione su una forma di comunità possibile dovrà spostarsi sulla radice ontologica, etica e politica di concetti – ed esperienze – inattuali come l'amicizia e l'amore: ne gioverà, a mio avviso, tanto la riflessione stessa, quanto la lotta politica. Specialmente il legame profondo dell'amicizia e della comunità - per lo più taciuto dalle rivendicazioni comunitarie contemporanee – romperebbe lo scoglio dell'isolamento esistenziale – la convinzione di una distanza insopprimibile fra io e mondo, fra io ed altri – e potrebbe accendere una luce sulla lunga strada verso la via d'uscita. Quest'ultima dovrebbe condurci, dalla fatica di essere noi stessi, alla leggerezza e alla gioia dello stare insieme.